Riletture in chiave Sf

Riletture in chiave sf: La vita davanti a sé di Romain Gary

scritto da Laura Lombardi

Pag 7. Per prima cosa vi posso dire che abitavamo al sesto piano senza ascensore e che per Madame Rosa, con tutti quei chili che si portava addosso e con due gambe sole, questa era una vera e propria ragione di vita quotidiana, con tutte le preoccupazioni e gli affanni. Ce lo ricordava ogni volta che non si lamentava per qualcos’altro, perché era anche ebrea. Neanche la sua salute era un granché e vi posso dire fin d’ora che una donna come lei avrebbe meritato un ascensore.

Dovevo avere tre anni quando ho visto Madame Rosa per la prima volta. Prima non si ha memoria e si vive nell’ignoranza. La mia ignoranza è finita verso i tre o i quattro anni e certe volte ne sento la mancanza.

pag 8. Madame Rosa si è accorta che ero triste e mi ha spiegato che la famiglia non significa niente e che ci sono persino di quelli che vanno in vacanza abbandonando il loro cane legato a un albero e che ogni anno ci sono tremila cani che muoiono così senza l’affetto dei loro cari. Mi ha preso sulle ginocchia e mi ha giurato che io ero la cosa più cara che aveva al mondo, ma io ho pensato subito al vaglia e sono scappato via piangendo.

pag 64. Non lo sapevo cosa nascondeva, ma di notte avevo paura. Non sono mai riuscito a cavarne altro, anche quando i vaglia hanno smesso di arrivare e lei non aveva più motivo di essere gentile con me. Tutto quello che sapevo era che avevo sicuramente un padre e una madre, perché su questo la natura è inflessibile. Ma non erano mai ritornati e Madame Rosa assumeva un’aria di colpa e taceva.

Vi dirò subito che mia madre non l’ho mai ritrovata, non voglio darvi delle false emozioni. Una volta che ho insistito molto, Madame Rosa ha inventato una bugia così meschina che era un piacere.

«Per conto mio aveva un pregiudizio borghese tua madre, perché era di buona famiglia. Non voleva che tu sapessi il mestiere che faceva. Allora se n’è andata, col cuore a pezzi singhiozzando per non tornare più, perché il pregiudizio ti avrebbe dato uno shock traumatico, come vuole la medicina».

E ha cominciato a frignare anche lei, Madame Rosa, non c’era nessuno come lei per appassionarsi alle belle storie. Penso che avesse ragione il dottor Katz quando gliene ho parlato. Ha detto che puttana è un’idea puramente astratta. Anche il signor Hamil, che ha letto Victor Hugo e ha vissuto più di qualunque altro uomo della sua età, quando mi ha spiegato sorridendo che niente è bianco o nero e che il bianco spesse volte è il nero che si nasconde e il nero certe volte è il bianco che si è fatto incastrare. Ha anche aggiunto, guardando il signor Driss che gli aveva portato il tè alla menta: «Date retta alla mia vecchia esperienza». Il signor Hamil è un grand’uomo, ma le circostanze non gli hanno permesso di diventarlo.

pag 197. «Le scrivevano di andare là, ma Madame Rosa non mi voleva abbandonare. Io e Madame Rosa non ce la facciamo uno senza l’altra. È tutto quello che abbiamo al mondo. Lei non mi voleva piantare. Non vuole nemmeno adesso. Ancora ieri ho dovuto supplicarla. Madame Rosa, andate nella vostra famiglia in Israele. Laggiù morirete tranquilla, si occuperanno di voi. Qui non siete niente. Laggiù sarete molto di più».

Il vero nome di Romain Gary era Roman Kacev, figlio di Mina Josselevna Owczinska e di Arieh-Leib Kacev.

Una volta in Francia Roman divenne Romain e cambiò il suo cognome in Gary. Probabilmente non solo, come scrisse, perché Gary significa “brucia!” in russo, ma anche perché Kacev, cognome ebraico, nella sua lingua madre significava “macellaio”.

Roman nacque nel 1914 nel ghetto di Vilné, nome ebraico della città di Vilnius, allora considerata la “Gerusalemme del nord”. Sua madre era al secondo matrimonio.

Kacev padre li abbandonò quando Roman aveva circa dieci anni, anche se Gary avrebbe poi raccontato che questo accadde quando lui era molto piccolo. Fece poi qualche rara comparsa finché sparì definitivamente quando Roman aveva dodici anni.

Madre e figlio, in fuga dall’antisemitismo dilagante, si trasferirono allora in Polonia e poi attraversarono l’Europa per arrivare due anni dopo in Francia.

Roman visse l’abbandono del padre come un rifiuto personale nei suoi confronti e per tutta la vita si vendicò. Il pellicciaio e mercante ebreo nei suoi racconti non esistette mai, non ebbe il diritto di entrare nel suo albero genealogico. Roman si creò un padre misterioso, spesso leggendario. Ad esempio affermò a volte che il suo vero padre era Ivan Mošukin il famoso attore russo. Si inventò di essere nato a Mosca, oppure a Kursk o a Kiev, a san Pietroburgo, in Polonia, in una stazione, nel palazzo di un khan o in qualche luogo sperduto nella steppa. Non disse mai di essere nato in un ghetto ebraico in Lituania. Sostenne sempre di essere cresciuto senza padre e senza patria.

Gary però fu dentro una costante contraddizione per tutta la vita. Se da una parte visse nella finzione, mentì ripetutamente sul suo passato e costruì la sua vita come una pièce teatrale, dall’altra affrontò tutto, la guerra, i suoi incarichi, le sue missioni diplomatiche, con estrema coerenza e senza risparmiarsi nulla. Come lui stesso scrisse in tarda età, visse “da camaleonte”, ma interpretò ogni ruolo con rispetto e dedizione totale.

Fu aviatore, eroe di guerra, viaggiatore, regista, diplomatico e scrittore.

Già durante le loro migrazioni forzate attraverso l’Europa degli anni Venti, Mina, la madre, gli ripeteva continuamente che un giorno lui sarebbe diventato ambasciatore di Francia. Mina sognava per lui e visse per lui. Era una donna forte, robusta, cocciuta, ancora bella, capelli corti e sigaretta perennemente in bocca. E quando finalmente arrivarono a Nizza, in Francia, lei continuò a sacrificarsi per lui e a sognare che diventasse ambasciatore di Francia. Lui ottenne la nazionalità francese e divenne invece aviatore. Combatté in volo per tutta la guerra e fece parte della gloriosa squadriglia Lorraine di cui fu uno dei pochi sopravvissuti. Da eroe. Fedele per tutta la vita al generale De Gaulle.

Poi Romain Gary, ebreo nato nel ghetto di Vilnius, dopo avere svolto incarichi diplomatici minori divenne davvero console generale di Francia a Los Angeles.

Coronando il sogno di Mina che però, a quell’epoca, era morta già da diversi anni.

Gary si sposò due volte, la seconda con Jean Seberg, scrisse in due lingue, inglese e francese. E per due volte, unico caso al mondo, vinse il premio Goncourt, il massimo riconoscimento letterario francese.

Uomo affascinante, carismatico, bello, dotato del tipico humour ebraico, morì suicida a 66 anni dopo una vita che è di per sé un romanzo. Una vita così intensa per cui il camaleonte, che diventa blu sulla coperta blu e verde su quella verde, come scrisse lui stesso, una volta appoggiato su quella scozzese, scoppia.

La promessa dell’alba è il libro di Gary dedicato esplicitamente alla madre, da cui emerge il ritratto di una donna coraggiosa, orgogliosa, esigente, sovrana ed adorante, una mamma “dominatrice”.

Mina morì nel 1941 e Gary lo seppe soltanto a guerra finita. Ne La promessa dell’alba Gary scrisse che nei suoi ultimi giorni Mina aveva dettato a un conoscente duecentocinquanta lettere incaricandolo di spedirle al figlio una alla settimana.

Probabilmente questa è una delle sue tante invenzioni. Ma se non è accaduto, certamente avrebbe potuto essere. Nello stesso libro scrisse infatti:

“Con l’amore materno, la vita vi fa all’alba una promessa che non mantiene mai. Si è in seguito obbligati a mangiar freddo fino alla fine dei propri giorni. Dopo quello, tutte le volte che una donna vi prende tra le braccia e vi stringe al cuore, non sono che condoglianze. Si torna sempre a guaire sulla tomba della propria madre come un cane abbandonato.”

In un libro successivo, La notte sarà calma, ironica autobiografia scritta sotto una forma fittizia di conversazione, Gary dichiarò che “… la sola cosa che ho visto in mia madre è l’amore. Faceva passare in secondo piano tutto il resto, come accade in ogni donna… Io mi sono formato sotto lo sguardo d’amore di una donna. E così ho amato le donne. Non troppo, perché non le si può mai amare abbastanza. Del resto è risaputo: per tutta la vita sono andato alla ricerca della femminilità. Senza quella, l’uomo non esiste. Se poi vogliamo chiamare tutto ciò “essere segnato da mia madre”, mi sta bene, e ne voglio ancora. La suggerisco. Anzi, la consiglio vivamente. Credo anche di non essere mai riuscito a saldare del tutto il mio debito.” E in un altro passaggio afferma: “… La verità è che nelle madri castranti non c’è traccia d’amore. Quando c’è amore, in una madre, tutto il resto non conta.”

Esplicitamente dichiara che la sua ammirazione per De Gaulle non era certo legata all’immagine eroica del padre che non aveva avuto. Sostiene invece: “De Gaulle, ai miei occhi, era la debolezza in grado di dire “no” alla forza; quando a Londra diceva “no” alle più grandi potenze del mondo, “no” all’annientamento, “no” alla capitolazione, rappresentava la solitudine dell’uomo, della condizione umana, e quel rifiuto di capitolare incarna la sola forma di dignità alla quale possiamo aspirare.”

Amore e anticonformismo. Disciplina e romanticismo (è capitato spesso che Gary si emozionasse e singhiozzasse in pubblico): il filo rosso che lega tutti i Gary che il mondo ha conosciuto va probabilmente cercato nella caparbietà di Mina. E nella sua fiducia totale nel figlio. Lei non solo sognò che lui diventasse ambasciatore di Francia. Lei lo crebbe dandogli la certezza che, se lo avesse voluto, lo sarebbe potuto diventare. Lei lo crebbe libero di inventarsi la sua vita.

E lui lo fece, letteralmente.

Nessuno ha vinto il premio Goncourt due volte per il semplice motivo che è un premio riconosciuto una sola volta nella vita.

Gary ne vinse due. E gli fu possibile soltanto concependo l’esistenza di Emile Ajar, un misterioso scrittore esordiente.

Tutti scrivono che Ajar in russo significa “brace”. In realtà brace in russo si dice “zhar” (i francesi scriverebbero Jar). “A” è una congiunzione che significa “ma”. In alcuni casi si usa però in una diversa accezione. Per dire: “perciò”, “e dunque”, “vale a dire”.

Ajar letteralmente significa “e quindi brace”. Quella A sottolinea ancora più marcatamente il diretto legame con quanto è venuto prima: Brucia! (Gary) – E quindi brace (Ajar).

Ajar viene da lontano, è l’ultima parte di un filo ininterrotto. E’ figlio di un progetto antico, perseguito per onorare la fierezza, l’ambizione e la capacità di Mina, sua madre, di plasmare la sua vita e quella di suo figlio conducendole verso mete inimmaginabili. Per onorare la fiducia incrollabile di una donna ebrea che negli anni Venti aveva attraversato l’Europa sola con il figlio perché diventasse ambasciatore di Francia. Per onorare il credo in cui era cresciuto, che tutto è possibile.

Ajar ebbe anche un volto perché la finzione doveva essere perfetta. Gary interpellò il figlio di una cugina, e questi si prestò. Molto più giovane di Gary, comparve anche in televisione. Resse la parte. Fino alla fine. Perché Romain Gary non svelò mai la verità. Che si conobbe soltanto qualche mese dopo la sua morte, con la pubblicazione postuma di Vie e mort d’Emile Ajar.

L’esistenza di Emile Ajar, fu l’ultima e la più incredibile invenzione del visionario Roman Kacev. Che visse nei suoi ultimi anni in uno sdoppiamento totale, scrivendo sia come Gary sia come Ajar.

Nel 1975 Gary, vincitore del premio Goncourt nel 1956, era considerato un autore finito ed era snobbato dai critici.

Nello stesso anno Ajar vinse il premio Goncourt con la vita davanti a sé, romanzo uscito pochi mesi prima.

La vita davanti a sé è un romanzo strepitoso, un romanzo sul significato profondo del Bene, dell’Amore, della Bellezza, una storia di trasfigurazione, dove il sordido e il brutto si trasformano in pepite preziose. E’ la storia di un amore filiale puro, totalizzante, fra un ragazzino quattordicenne musulmano e una vecchia ex prostituta ebrea cui è stato affidato sin da piccolo.

Momò vive con lei e altri ragazzi in un appartamento al sesto piano di un caseggiato a Belleville. La donna gestisce una specie di ricovero per “figli di puttane”. E lo fa con tutta la dedizione e la cura di cui è capace. Momò è l’unico che non riceve mai visite. Per tutti gli altri esiste una madre che ogni tanto compare.

La storia è incentrata intorno a Momò e a Madame Rosa, ma intorno a loro sono vivi e pulsanti il mondo del caseggiato, con il trans senegalese, il protettore nigeriano, il signor Hamil ex venditore di tappeti, il dottor Katz e il mondo di Belleville, periferia colorata e povera, degradata e criminale.

E’ il racconto in prima persona da parte di un ragazzino la cui preoccupazione maggiore riguarda le condizioni di salute di Madame Rosa, la sua madre tutelare. Lei pesa 95 chili e fatica sempre di più ad affrontare i sei piani di scale per arrivare a casa e Momo ha il terrore di perderla. La visione della vita del ragazzo è letteralmente filtrata dall’esperienza di una donna che si trucca molto, piange spesso e dorme con una foto di Hitler sotto al letto perché quando sta male le basta tirarla fuori per sentirsi subito meglio ricordando a che cosa è scampata.

Ma non è soltanto la storia a rendere questo romanzo un libro intrigante, affascinante, commovente.

Determinante è anche lo stile, l’invenzione linguistica, l’uso di un gergo parlato, divertente, incongruo, ma assolutamente efficace, spiazzante, divertente. E tenero.

Il romanzo ebbe uno straordinario successo – ne fu tratto anche un film, interpretato da Simone Signoret – e in Francia si cominciò a parlare di “ajarismi” riferendosi a un modo particolare di scrivere dell’autore. Ed è anche capitato che, paradossalmente, Romain Gary venisse accusato di copiare Ajar.

Gary è sempre stato un narratore straordinario, con una ricchezza di vocabolario incredibile, frutto anche della padronanza di diverse lingue, con il talento per la battuta, per l’umorismo. Con la vita davanti a sé raggiunse l’apice.

E non a caso con uno straordinario tributo, ancora una volta, a Mina, sua madre. Come ne la promessa dell’alba la protagonista è di nuovo una madre che invecchia e che non può rinunciare ad amare. Perché, sebbene tutrice, Madame Rosa è madre a tutti gli effetti. Vive per ribadirci che madri si è non soltanto in termini biologici.

Momò è il narratore, è il testimone. Madame Rosa è l’epicentro. Ed è da lei che irradia tutto l’amore, la tenerezza, l’emozione che il lettore sente. Madame Rosa è per Momo ciò che è stata Mina Josselevna Owczinska per Roman.

Il tutto cui è difficile rinunciare, cui è impossibile trovare paragoni, ma da cui è possibile partire liberi di inventarsi “la vita davanti a sé”.

La vita davanti a sé, Romain Gary – Neri Pozza editore, 2005

 

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autore

Laura Lombardi

Scrittrice, con un passato televisivo. Coordinatrice dell’area culturale ed eventi. Madre separata di una figlia, sono curatrice, insieme con Raethia Corsini, del progetto smALLbooks. Per il sito scrivo per la sezione “Magazine” e “Diario d’Autori”. Condivido con Giuseppe Sparnacci il progetto “Riletture in chiave smallfamily”.

Sono nata nel 1962, scrivo e ho un’unica adorata figlia nata nell’anno 2000. Con Susanna Francalanci ho scritto alcuni libri per ragazzi pubblicati dall’editore Vallardi e il giallo Titoli di coda, per Eclissi editrice. Per parecchi anni ho lavorato come autrice televisiva, soprattutto in Rai, soprattutto con la vecchia RaiTre. Prima ancora c’era stato il periodo russo, quello in cui ho frequentato Mosca, l’Unione Sovietica e la lingua russa.Il canto, la ricerca attraverso il suono e la voce, il tai chi, sono gli strumenti privilegiati con cui mi oriento. Amo camminare, soprattutto nel silenzio denso di suoni dei boschi dell’Alta Valmarecchia, dove ho la fortuna di avere una casa che saltuariamente apro per ospitare incontri, corsi e altre iniziative: Croceviapieve. Vivo il progetto Smallfamilies come parte fondamentale del mio percorso evolutivo.

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