STORIE

Armando e Yaroslav: Kharkiv, Milano, Ostuni – PARTE 1

scritto da SF storie

«Armando, sei il papà dell’anno. Yaro non è solo cambiato. Tu l’hai trasformato». E questo amico dell’associazione mi mostra un video in cui compare mio figlio Yaro prima che arrivasse in Italia per la prima volta.

Bambino super attivo, vivace e ribelle, nel video strascica i piedi come fosse sedato. Un colpo al cuore.

Yaro ha dodici anni. È arrivato la prima volta a Milano quattro anni fa.

Allora mi chiedeva spesso se io lo avrei davvero ripreso ancora l’anno dopo. Parlava di sé come se fosse un pacco. Non aveva nessuna idea dell’amore che io ho provato per lui subito, non appena ho visto la sua fotografia.

Io mi sono sentito subito padre.

Il mio percorso con lui è stato per me totale, completo. Ho sentito tutto: la gestazione, la nascita, la crescita. Tutta una vita, in una straordinaria accelerazione. Un mese mio con lui corrisponde a due anni di un rapporto normale genitore-figlio.

Dopo che ho deciso di intraprendere il cammino dell’affido temporaneo, l’associazione italiana ha segnalato la mia disponibilità all’istituto ucraino e loro mi hanno accoppiato a un bambino di cui mi hanno inviato la fotografia.

Quando l’ho vista mi sono commosso come se mi avessero presentato la foto del feto.

Lui mi è piaciuto moltissimo, subito ho pensato: questo mi darà dei guai. Guardavo la foto e mi veniva da piangere. Un’emozione fortissima. Pensavo che lui, invece, mi aveva preso a scatola chiusa, perché io mi ero dimenticato di inviare una mia foto.

Posso dire di avere vissuto un vero e proprio parto, sia maschile sia femminile.

Ad esempio, pur avendolo visto soltanto in fotografia, ho cominciato ad avere disturbi forti all’apparato digestivo. “Forse sto facendo la cosa più incosciente della mia vita”, mi sono detto. Mi piace fare esperienze, ma avevo il dubbio di essere andato troppo “oltre”. Non dormivo la notte, avevo mal di stomaco, non digerivo, avevo il riflusso anche con il riso lesso.

Ho capito che dovevo farmi aiutare.

Sono andato da una psicologa che avevo già conosciuto anni prima e le ho raccontato: “ho fatto una pazzia, questo bambino mi sta arrivando e io sto male.”

Lei mi ha detto: “è tutto OK, sei nella regola precisa. L’ansietà è generalmente del padre, che si preoccupa del futuro che darà a suo figlio; per la madre è diverso, la madre nutre, protegge, ha un filo diretto. Tu ti sei accollato tutte e due le parti. Non ti preoccupare. Vedrai che il giorno in cui arriva, ti passerà tutto.”

Così è stato. Il giorno in cui è arrivato a Milano, io tremavo, in preda a commozione e lacrime, e quando l’ho preso per mano era come se avessi paura di romperlo, come accade con i neonati.

Quando sono andato a prenderlo, visto che non potevo presentargli una famiglia canonica, come accadeva per altri bambini, mi sono portato due amiche. Facendogli capire che sono un papà solo, ma che ho intorno tante persone amiche. Lui sapeva che avrebbe avuto solo il papà, era preparato, ma lo stesso mi sembrava un bel gesto, per lui. Naturalmente lui non parlava che l’ucraino.

Indicando le mie amiche gli ho detto: “lei Cinzia, lei Silvia, io invece sono Armando.”

Lui invece ha detto subito: “No Armando. Tu papo. Papo.»

Era preparato. All’istituto gli avevano detto che mi avrebbe fatto piacere sentirmi chiamare papà, ma ugualmente per me è stata un’emozione fortissima.

Una volta a casa, abituato a dormire in camerata, appena ha visto una camera tutta per sé, era ovviamente contento, è entrato ma ha subito detto: “no, no, non chiudere la porta.”

Nella sua stanza, di cui è comunque gelosissimo, ha però dormito una sola volta, il primo giorno in cui è entrato in casa. Poi ha sempre voluto dormire con me. E io ho acconsentito. Gli ho sempre detto che dev’essere una sua decisione.

Lui arriva da me nel periodo estivo e durante le vacanze di Natale. E a casa, nella sua camera, naturalmente ritrova tutte le sue cose, i suoi giochi, i vestiti. È molto ordinato, più ordinato di me.

I primi anni, su skype, mi diceva: “fammi vedere la mia stanza”. Per controllare che tutto fosse come lo aveva lasciato.

La cosa curiosa è che io, questa camera, non l’ho fatta per lui. L’ho fatta nei miei sogni. Prima che lui arrivasse, mi chiedevano spesso come mai avessi allestito una camera con oggetti d’arredo e colori per bambini. Mi chiedevano: “non hai figli, come mai quelle tinte?”

La prima settimana proprio non ci capivamo. Usavamo sempre il traduttore online, ma vista la traduzione approssimativa, facevamo fatica a capirci. Per me non aveva senso quello che lui mi rispondeva. È stato difficile. Per fortuna c’era Raissa, una signora ucraina che viene ogni tanto per fare un po’ di pulizie. Ci conosciamo da vent’anni. Lei mi ha molto aiutato e rassicurato, nonché consigliato di essere più forte, di non essere solo dolce. Mi ha spiegato che i bambini là, non solo quelli che vivono in istituto, sono abituati alla durezza e “non a tutte le carezze come qui da voi.” E che quindi dovevo mostrare anche quella parte.

Io ho cercato di essere forte soprattutto quando ho visto degli atteggiamenti che non mi piacevano nei confronti delle bambine. La cultura da loro è decisamente maschilista, e si vede. Io ho cercato di indirizzarlo diversamente, di spiegargli. Ora là, in Istituto, si comporta diversamente e interagisce con le bambine.

Seguo la sua crescita anche a distanza. Purtroppo ci sentiamo pochissimo perché, a differenza della maggioranza dei bambini, lui difficilmente ha voglia di stare su skype. E questo è proprio un punto su cui voglio lavorare.

È sempre stato così. Finora mi sono dato la spiegazione che questo accadesse per evitare di soffrire nel ricordare qualcosa di bello. E ci stava. Ora non mi basta. Anche perché altri genitori dell’associazione mi hanno raccontato che spesso lui si fa vedere con loro, mentre sono in skype con i loro figli, ridendo o scherzando.

E la cosa peggiore è che la “mamushka”, l’educatrice di turno, deve invece chiamarlo per parlare con me, alias il nostro contatto a distanza spesso non è stato spontaneo, ma forzato dall’esterno.

Quando l’ho capito e ho capito che lui di fatto mi parlava solo perché temeva una punizione nel caso avesse rifiutato, ho subito chiesto di non costringerlo.

Ma per me è chiaro che questo comportamento è un modo per lanciarmi dei messaggi. Ho capito che ora bisogna iniziare una nuova fase, educativo-cognitiva.

Quando l’ho conosciuto, ho dato priorità alla parte affettiva. Mi sono proprio detto che dovevo lavorare sull’affezione, imparare a conoscerci e soltanto dopo fare altro.

Quest’anno, il quarto anno in cui ci rivediamo, inizierò un percorso diverso, fase educativa-cognitiva. Prima volevo sentirlo sicuro.
Lui ora è sazio di coccole, attenzioni, dimostrazioni continue di affetto. Le voleva, le ha avute, ora è sicuro. Ora vuole altro. E io sono pronto.

Finora lui mi ha visto come una presenza “materna”, come dice Recalcati, affettiva, di pancia. Finora sono stato una madre. Adesso devo fare il padre.

Yaro è uno molto fisico, sempre in movimento, ma è anche molto sveglio intellettualmente, quindi, quando è arrivato la prima volta, ho capito subito che potevo iniziare con lui un approccio di scolarizzazione di base che là non ha avuto.

Per quanto siano stati pochi i momenti in cui sono riuscito a carpire la sua attenzione, ha iniziato velocemente a scrivere alcune parole in italiano, come il suo nome, papà, mamma, nonna, zio…

La cosa incredibile è che, allora, faceva ancora fatica a leggere o scrivere in ucraino. Quello l’ho realizzato dopo, quando sono andato a trovarlo in Ucraina la prima volta. Avevo affittato un appartamento nel centro della città, per allontanarmi dalla periferica zona dell’istituto, l’unica che lui conosca. Naturalmente pensavo che mi avrebbe aiutato a riconoscere i nomi delle strade etc, visto che sono scritti in cirillico. Invece, a nove anni, ancora non lo sapeva fare. Non sapeva leggere e dire il nome della via a un taxista.

In Ucraina frequenta la scuola pubblica e lì i bambini orfani sono considerati reietti, non ricevono alcuna sollecitazione, come accadeva da noi negli anni passati. Me lo ricordo bene. Sia mia nonna sia mia mamma e le sue sorelle sono state insegnanti di scuola elementare.

Per essere autodidatta, ora ce la caviamo. Non parla ancora benissimo l’italiano, ma ci capiamo perfettamente. E ogni volta migliora.

“Papà non arrabbiare con me, tutto bacio!” Tutto bacio: io mi ero affezionato a questa espressione. Era il nostro codice. Continuavo ad usarla, ma lui, diventato consapevole che è un modo di dire sbagliato, mi ha chiesto di smettere. Ho capito che ero io a non voler progredire. Volevo che rimanesse bambino.

Quest’anno partirà un altro percorso, anche per me. A me è molto piaciuta quella fase affettiva, materna, coccolante, servizievole. Io lo accudivo, lo lavavo, avrei volentieri prolungato la sua fase infantile, ma ora serve altro.

In Ucraina Yaro ha soltanto una nonna. il padre che era alcolista e violento è morto, la madre è sparita. Lui mi ha accennato alcune cose della sua famiglia, ma mi ha fatto capire che devo aspettare i tempi suoi perché mi racconti di più. Io gli ho sempre detto che avrei voluto conoscere la babushka ucraina e lui non capiva perché, pensava che volessi deriderla. Invece, l’ultima volta che sono andato in Ucraina, anche lui era d’accordo che io la incontrassi. Ma all’istituto, hanno fatto in modo che non accadesse. Credo perché sono ancora molto vittima di preconcetti e la considerano una “brutta persona”. Non a caso Yaro, all’inizio, mi ha raccontato diverse bugie. Là li preparano a recitare una parte. Gli inculcano che devono venire qui e fare la parte degli orfanelli, che questa cosa piace agli italiani, fa presa. Dicono loro di non dire alcune cose perché potrebbero essere rifiutati, li convincono a non essere sinceri.

Io ho chiarito subito che le bugie non si dicono. Ma è evidente che, per la sopravvivenza, loro là lo fanno abitualmente, e questo è un elemento di cui tenere conto.

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SF storie

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