A Bande Nere c’era questa ragazza, che lavorava in un’agenzia ippica. Ogni 5-6 giorni lei mi dava dei soldi, ma non spiccioli. Mi dava così, senza che io chiedevo. Lei passava e mi diceva: «ciao angelo». Io pensavo: «mah, angelo io? Sono un barbòn!». Finché io non mi ricordo quando, dopo un po’, le ho detto: «guarda che non c’è bisogno di soldi. I soldi non li prendo tutti io, e a me dispiace che tu perdi tutti questi soldi. Il discorso invece è: c’è qualche possibilità che esce il permesso di soggiorno? C’è qualche bellezza?»
Lei fa: «sì, conosco abbastanza gente, magari si fa.»
Un giorno mi porta da don Gino, mi dice che è un prete che aiuta tanta gente, che è il cappellano di Beccaria e che aiuta tanti. Io pensavo che vado lì, mi vede, e basta. Invece andiamo a casa sua in cascina, con lei, e lui mi tiene lì così, subito.
Gino è unico. Non c’è un altro Gino Rigoldi. Qualche tempo fa l’ho accompagnato a Cremona. 400 persone. Argomento dell’incontro organizzato dal don locale era: come facciamo noi genitori a dare bella educazione ai figli? Perché i figli non ci ascoltano? E Gino ha fatto un discorso. Diceva che manca educazione non perché c’è moda, internet, soldi etc. Possiamo entrare al 100% in queste cose, usarle, va tutto bene ma solo se c’è l’amore. Nella casa c’è da condividere le cose, tra genitori e figli. Se c’è feeling marito-moglie c’è anche feeling con i figli. Bellissimo, no?
Lui ha anche adottato tre figli che hanno suo cognome. Un serbo, un marocchino e un albanese.
IL PERMESSO DI SOGGIORNO
Un giorno Gino mi chiama dal suo ufficio e mi dice: «Dritan, nulla osta è pronto. Devi partire per andare a ritirarlo».
Allora vado nel suo ufficio e lui mi dà i soldi per il viaggio in Albania.
Il permesso di soggiorno è arrivato nel 2001. Dopo ho lavorato in tanti posti, in giro per l’Italia, e ho lasciato tanti lavori, ma allora avevo lavoro e non avevo cervello. Quando il cervello cresce non te lo mangiano neanche i cani. Se avevo allora il cervello di adesso, me lo gestivo meglio. E mi tenevo il lavoro.
MILANO
Nel 2008 succede che dovevo stare a casa di Gino due settimane e alla fine sono stato due anni.
Ho lavorato lì in cascina, curavo l’orto e cose così. Ogni tanto mi chiamavano da Comunità Nuova, l’ufficio di Gino, e mi facevano fare dei lavori. Portavo i ragazzi per loro, o facevo altre cose.
Però maggior parte del tempo dormivo sempre a casa di Gino in cascina, ad esempio venerdì, sabato, domenica. Lì dormivo su divano poi magari un giorno o due passavo da casa.
Negli anni dopo ho fatto diverse cazzate, anche gravi, ma alla fine Gino mi ha sempre ripreso con sé e mi ha sempre aiutato anche trovandomi una piccola casa. Ho avuto anche una moglie, ci siamo voluti bene, ma poi abbiamo divorziato.
2013 – TELEFONATA DALL’ALBANIA
In autunno mi arriva una telefonata dall’Albania.
Mi arriva telefonata da un mio cugino di là. In Albania sono giù di quarto mondo. Perché, se uno sta male, loro con sua mente dicono: «non facciamo spaventare suo figlio che è là, emigrato. Non dicono la verità. Lui mi chiama e mi dice: “guarda che tua mamma è in ospedale e non si sente bene». Allora io chiamo papà e lui dice che sta facendo controlli ma non mi dice tutto. Meno male che in Albania c’era un mio amico, io gli chiedo per favore di andare in ospedale. Dopo un’ora mi chiama e mi dice: «ascolta, tua mamma non mi riconosce». «Come?» Dico io. «Le hai detto di me, fatto il mio nome?» «Sì sì, ma senti, secondo me è in coma. Perciò vieni qua.»
Allora io ho preso subito, sono partito. Avevo mille euro. Ma avevo paura che mi servivano di più e ho chiesto a Gino. Lui mi ha dato. E è stato così, in venti giorni mi hanno mangiato quasi tutto in mance o medicine. Io dicevo: «ma di che cosa ha bisogno?» Ma se non davi mancia non facevano niente. Una flebo: 100 euro. Poi tu davi, a questo a quello, credevi che facevano, invece non facevano niente. Solo sorriso a te, ma sorriso falso. Dicevano: «tua mamma sta bene». Lei invece stava malissimo. Quando sono arrivato, col cavolo che mi ha conosciuto. Era novembre. All’inizio non ho capito quanto male stava. Quando però ho visto sue feci nere, ho dato 700 euro per avere loro timbro per dire che potevo portarla fuori dall’Albania perché lì non potevano curarla. Sono andato in agenzia, abbiamo fatto biglietto e questa signora è stata brava. Io ho raccontato tutta la storia della mamma e ho detto che se riusciva a farmi partire subito io pagavo 50 euro in più. Lei ha chiamato aeroporto per sapere se poteva partire sulla carrozzina. Hanno detto sì. Mi ha garantito e mi ha detto: «Ascolta, se non parte, anche se non si potrebbe dare soldi indietro del biglietto che hai già pagato, io te li ridò e mi tengo solo i 50 euro, però fidati, vai, vedrai che la fanno passare». Ho portato all’agenzia anche papà che ha parlato con lei. Poi ho preso taxi di un mio vicino di casa e siamo andati a prendere mia mamma all’ospedale di Fier. L’ho caricata in taxi come se fosse sacco di patate. Io e mia zia l’abbiamo cambiata. Lei era così, ti guardava senza vedere. Però, solo se le sfioravi piede destro, urlava. Si era creata da sotto la cancrena. «Mamma vuoi qualcosa?» Ho preso una torta salata, lei non voleva, ma io le ho dato a forza. Arriviamo a Tirana all’aeroporto e c’era dottore che doveva dare autorizzazione per uscire da Albania. Lui bravo. Su cento albanesi a volte uno bravo lo trovi. Mi dice: «dov’è la mamma?» Apre la porta e dice: «porca miseria!» Io avevo le lacrime. Lui mi mette mano sulla spalla e mi dice: «tranquillo che stasera tua mamma passa. Ci sono io». E io mi sono proprio commosso, mi è entrato un pianto forte col singhiozzo. Lui mi ha detto: «deve stare dritta sulla carrozzina. Se lei non sta, la dobbiamo legare. Che vuol dire alzare la maglia e mettere nastro». Mi dice: «non muore, tranquillo». Allora io dicevo: «mamma, alza la testa». Niente. Allora lui ha fatto qualcosa con flebo. Poi andati al controllo, e lì pam pam pam, finito, tutto a posto. Lui ha visitato mamma lì e mi ha detto: «Stasera facciamo entrare tutti poi quando mancano dieci persone tu vieni con tuo amico, la mettete in carrozzina e quando arrivi mi fai segno a me.» Io alla sera ho fatto segno, hostess hanno preso biglietto, prego passate, lui era lì, con poliziotti.
Siamo passati. Poi caricati in aereo insieme a altro con handicap, uno cieco. Ancora tremavo, però ormai eravamo su. C’era una hostess bravissima, albanese, da sposare, come si dice, che pensa un po’ mi ha dato sua cena per la mamma. Era peperonata ripiena con carne e riso dentro. Io le ho tirato dei soldi dicendole:
«non ti dico che ti pago il mangiare, ma almeno ti offro un caffè perché sono sicuro che se la mamma era in conoscenza rimaneva male di non poter ricambiare». Lei: «no, no, no, anzi io ti faccio i miei complimenti perché è raro vedere figlio così». Secondo me lei si è commossa.
Comunque partiamo, arriviamo Milano. E mio cugino che ci aspettava mi dice: «dai andiamo veloci che ho fame, voglio mangiare un panino». Non sapeva niente, poverino. Poi ha visto mamma così e ha capito. Io non avevo più pianto, però quando sono arrivato e sentivo odore d’Italia mi sono messo a piangere. Strano, visto che mi sentivo 100% sicuro, Malpensa, a casa mia. Invece piangevo, tremavo. Uno di quelli che aiutano i malati lì in aeroporto, simpatico, mi ha detto: «ehi, giovane devi andare a piangere a casa tua, non qua».
Quando mio cugino ha capito che mamma stava male, altro che panino, ha messo le quattro frecce e invece di andare a 100, andava a 120, o invece di 120 andava a 140. Così in 40 minuti siamo arrivati a Humanitas. Siamo andati a Humanitas perché Gino conosce qualcuno lì e poi perché è vicino a Rozzano, alla cascina. Venti minuti a piedi e sei lì. Così se lei è lì io posso fare qualunque cosa, andare a fare una doccia, mangiare etc.
Non dimenticherò mai quando arriviamo. C’era guardia medica. Mi dice: «buonasera». Io ho detto: «ho un malato dentro macchina». Lui vedeva mio cugino e diceva: «ma dov’è?» Io: «ma è qua, non vede?» Lui ha ha preso lampada per vedere bene e ha detto: «o signur!».
Poi, in dieci secondi, sono arrivati più di venti dottori e infermieri. Secondo me lui ha schiacciato qualcosa che vuol dire: allarme rosso, o una cosa così. Mi piacerebbe di avere un video di tutti quelli che c’erano lì perché hanno lavorato pazzesco e in ordine. Tu mi fai esami, ta ta ta, tu ci sei? Quant’è? Pa pa. Uno faceva esame sangue, uno diabete, tutti correvano. Mi ricordo che io ho baciato tutti. Mi dicevano: «ma perché? Io faccio mio lavoro». E io: «così, tu fai tuo lavoro e io ti bacio.» O un abbraccio. Le donne le ho baciate. Mi ricordo di una donna bionda bravissima, carina, simpatica, intelligente, complimenti. Tutti bravi. Io sono stato lì. Mi hanno fatto un pass che io potevo uscire e entrare con questo pass dalle porte riservate. Ho firmato carta che quello che vedevo in ospedale degli altri malati doveva rimanere in ospedale, per la privacy.
Dopo 24 ore quando si sono calmate le acque il dottore che ha preso tutto in mano, il primario, che io con la sua moglie facevo teatro senza sapere che era la moglie sua, mi ha detto: «se venivi cinque giorni in ritardo la mamma non c’era più. Ha rischiato tantissimo. Dovevi andare prima». Mi ha detto subito: «80% come vedo io adesso, tua mamma perde una gamba. Fino alla coscia».
Basta, a me non veniva più da piangere. Se dice dottore, è così. Italia. Mi fido.
Siamo stati in ospedale fino a due giorni prima di Natale. È stata in coma due settimane. Però loro la bombardavano di medicine che lei non rispondeva subito ma piano piano. Io devo ringraziare Humanitas, bravissimi.
Il 20 di dicembre, appena per la mamma è passato pericolo di morte, ci mandano a casa. Ero preoccupato perché non sapevo cosa fare. Mia mamma sveniva, anche. Loro mi dicono che ogni 3-4 gironi dovevo tornare lì per medicare. Piano piano almeno un altro mese ho fatto così finché poi siamo passati all’ospedale san Paolo. Hanno preso in mano loro e fino oggi andiamo lì.
Poco a poco mamma stava sempre meglio, le hanno tagliato solo un dito del piede. Però lei sempre sveniva. E i primi mesi quando uscivo a camminare con lei perché dottore mi ha detto che doveva camminare, anche solo 10 metri al giorno, ma che doveva farlo, non importa dove eravamo, la dovevo mettere per terra e dovevo alzarle i piedi. E in due minuti sembrava che l’avevi buttata in acqua. Su-da-ta! Tutto, anche sotto, canottiera e altro, si bagnava tutto. Tu non capivi senso. Perché? Portavo dal medico, misurava tutto. Niente. Una volta è svenuta al Lidl. Occhi andavano giù.
E lì lo spavento è stato forte. Sono stati due del Lidl che mi hanno messo da parte, dato giacca da mettere sotto la testa. Io dico grazie a tutti, poi ambulanza che è partita con sirena.
Era un attacco di cuore, quasi un piccolo infarto. Messo ossigeno in ambulanza e portata pronto soccorso san Paolo dove l’hanno tenuta dieci giorni con specie di cellulare che ti dice cos’ha il cuore. Così dopo le hanno messo un anello a una vena. Dopo 4-5 tentativi sono entrati nella vena. Dopo qualche mese è andato a posto. E adesso più passa il tempo più raro va in ospedale. Nei primi tempi io avevo paura, non sapevo come fare. Adesso tranquillo, sono passati tre anni, ho tutto in memoria. Cosa devo fare, quando devo portare per controlli, e così.
Io ero preoccupato all’Humanitas, quando mi hanno detto che dovevo portare a casa. Mi è cascato mondo addosso. Io avevo paura che mamma doveva girare sempre con carrozzina. Nel senso che all’inizio lei non stava in piedi e ha girato per una settimana con carrozzina, che mi ha prestato la chiesa. Poi però meno male, piano piano è andata sempre meglio. I primi mesi non ho dormito. Di notte mi alzavo con lei, portavo in bagno, avevo paura che cadeva, finché hanno tagliato dito. Ogni volta che io la lavavo e la pulivo lei piangeva, come la penso io, perché la mentalità che è in Albania è che si vergognava che un figlio maschio la lavava. Lei di mente albanese non aspettava che arrivava a quel punto. Non arrivava col cervello che: «come! puliscono a me!»
Poi si è abituata, anche se c’è sempre imbarazzo.
Mi occupo di mia mamma ormai da diversi anni, lei dice sempre: «grazie grazie, se non era per te, non ero qui eccetera» In italiano si dice: Dio ti benedica. In albanese si usa che è la persona che ti benedice, come se dicesse “quelle cose che ti dice Dio, te le dico io direttamente.” Mia mamma mi benedice sempre, e mi dice tante belle cose. A volte è successo che io sono stato via due giorni, anche se lei non è stata sola, avevo accordo per sua assistenza, ma quando sono tornato lei piangeva di gioia.
Mia mamma non è troppo: vieni qua e tanti baci. Ti fa capire che ti vuole bene, ma non è esagerata. Però è esagerata permalosa, quello sì.
Se tu la sgridi un po’, ad esempio, ma per il suo bene, dici, non so: «perché non sei andata fuori?» Che lei deve camminare. Io odio quando lei sta a letto in una certa posizione che fa male alla schiena. Basta che dico qualcosa e lei, alé, parte a piangere. Allora io vado vicino a lei e le dico: «ok, io ho un po’ alzato la voce, ma perché piangi?» E lei: «ma non si dice con quel tono». E io: «ma che cosa? Aiutami te a capire che cosa devo fare. Devo parlare sottovoce? La vita è così, c’è tutto, c’è anche rabbia, incazzatura. Io dico questo per te, per tua schiena, a me non cambia niente.
Io sto abbastanza educando lei. Un po’ il contrario di quando sei bambino.
In Italia la mia educazione è cambiata tantissimo. Molto migliorata. Moltissimo! Ma io la sto educando nel mondo italiano. Perché nel mondo albanese per lei non va bene niente di quello che dico. Le ho detto: «mamma, ci sono due peli da togliere, tipo baffi.» E lei: «no, no, mia età, no.» E io: «ma allora tua bellezza dove va? Non è che è finito tuo mondo perché hai 60 anni. Tu lo sai che c’è in Italia festa delle Donne dove donne stanno tra loro e vanno anche a ballare da sole?»
Per la mamma questo non esiste. Non esiste di andare, bere, ma anche solo sentirsi libera di fare quello che si vuole.
Per “loro”, perché io non sono più albanese come loro, è rimasta questa mentalità bruttissima, chiusa.
«Vieni che ti faccio sopracciglia, vieni che ti faccio capelli.» «Sei Matto!» mi dice.
Immagine di apertura: disegni di Mattotti pubblicati sulla cover del New Yorker