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Non è facile per i vedovi rifarsi una vita

scritto da Carla di Quinzio

“Non è facile per i vedovi rifarsi una vita” è il titolo di un articolo apparso su West del 27 settembre scorso. Ma è davvero così? E se le cose stanno in questi termini quali sono le possibili cause? E infine, è possibile contrastare tale tendenza?

Innamorarsi ancora dopo la morte del partner è possibile e auspicabile, ma affinché possa avvenire un buon incontro è necessario elaborare il lutto rispettando le fasi e i tempi. Il tempo è una variabile necessaria ma non sufficiente. Occorre uscire dall’equivoco di pensare al tempo che trascorre come a un toccasana in grado di rimarginare le ferite. Il tempo, affinché possa svolgere quella funzione lenitiva, dovrà essere utilizzato per elaborare il lutto. Con ciò, come con la locuzione “lavoro del lutto”, si intende un lavoro psichico che permette di attraversare la dolorosa esperienza della perdita evitando l’immobilizzazione tipica del rimpianto melanconico infinito. Un blocco affettivo che si manifesta quando la persona scomparsa viene idealizzata fino al punto che nessun’altra donna o altro uomo può fare innamorare il vedovo o la vedova. Già da questo primo sguardo appare evidente come il tempo impiegato a idealizzare la persona scomparsa, non è un tempo usato utilmente per rimarginare le ferite. L’idealizzazione infatti può essere vista come un meccanismo di difesa teso a contrastare il lavoro del lutto.

È del tutto evidente che è necessaria una quota minima di idealizzazione per vivere, diventa invece disfunzionale quando attraverso l’idealizzazione si evita la realtà.

Il lavoro del lutto ha le sue fasi, occorre “semplicemente” attraversarle senza opporre resistenza. Proviamo a vedere brevemente di cosa si tratta.

Nel’immediatezza della perdita l’adulto reagisce con una fase di incredulità e stordimento cui succede un periodo contrassegnato dall’angoscia accompagnata da rabbia indirizzata anche verso il defunto da cui si sente abbandonato. È un sentimento che può spaventare, sembrare inopportuno, può far pensare di aver perso il senno. È bene invece sapere che si tratta di una fase transitoria del tutto normale.

Il passaggio successivo è anche il più delicato, poiché comporta una sofferenza acuta e l’assunzione della decisione di congedarsi e accettare la definitiva perdita. È il momento in cui si realizza che la persona cara non c’è più.

park-bench-192062Attraverso un ulteriore dolorosissimo passaggio si può finalmente arrivare alla ridefinizione di se stessi e della situazione rinunciando definitivamente alla speranza di recuperare in vita la persona morta.

Generalmente il processo di elaborazione del lutto dura fra i due e i tre anni al termine di questo periodo la ferita non sarà scomparsa completamente, ma si presenterà sempre più in una forma di rimpianto dolce anziché lacerante.

Dalla sommaria descrizione del processo, appare evidente che il lavoro del lutto richiede che si mobilitino risorse psichiche, per un periodo di tempo necessariamente lungo, in un lavoro in cui la memoria è impegnata nell’attraversamento dei ricordi. La memoria e il tempo dunque hanno un ruolo fondamentale nell’elaborazione del lutto. Sembra che per poter dimenticare, non completamente come detto, sia necessario ricordare concedendosi il tempo necessario.

Man mano che i ricordi vanno scemando gradualmente si produce il vuoto dentro di sé, doloroso, ma indispensabile a generare la mancanza. Il lavoro del lutto, per quanto doloroso, è un passaggio obbligato che, solo se percorso per intero e fino in fondo, può aprire a nuove possibilità di investimento vitale.

Quel che accade infatti è che il soggetto adulto, a seguito dell’esperienza dell’elaborazione del lutto giunta a buon fine, potrà riorganizzare la propria vita anziché precludersi altre possibilità affettive.

L’elaborazione del lutto corrisponde a un graduale affermarsi del principio di realtà.

Viceversa quando i meccanismi di difesa contrastano il processo il soggetto può restare con lo sguardo rivolto al passato in una melanconia infinita: è esattamente quel che accade nei casi di idealizzazione, oppure può negare assumendo un atteggiamento falsamente euforico.

In entrambe le situazioni la sofferenza non passa mai e la persona non è nello stato d’animo per potersi innamorare.

Quando c’è l’idealizzazione le persone restano legate alle cose che erano appartenute al defunto: dopo anni tutto nella casa e negli armadi è conservato intatto. Si ha l’impressione che le cose diventino il sostituto della persona scomparsa.

Quando invece c’è il rifiuto della realtà vi è una pervicace negazione della perdita e dell’impatto traumatico. Nel vano tentativo di evitare il dolore la persona si dedica massimamente al lavoro oppure passa da una festa all’altra, ma il vuoto resta e accade che si tenti disperatamente di saturarlo talvolta con il cibo, sia in eccesso sia in difetto, altre ingombrando la vita di oggetti, oppure stordendosi con l’uso di sostanze stupefacenti e con l’alcol, ma anche combinando fra loro tali feticci cui viene conferito l’impossibile compito di evocare la presenza della persona perduta.

Abbiamo visto che il lavoro del lutto comporta, fra l’altro, la capacità di riuscire a tenere dentro di sé il vuoto che produce la mancanza e quindi il desiderio; viceversa nella saturazione che stiamo esaminando è preclusa tale possibilità.

Infine teniamo presente che da un punto di vista psicologico il lutto non è legato solo alla morte fisica di una persona cara. Con livelli di sofferenza molto diversi la condizione luttuosa si riferisce a tutti i passaggi di vita, alla fine di un amore o di un’amicizia, persino alla realizzazione di qualcosa a cui si è dedicato molte energie pensiamo ad esempio allo stato d’animo dei neo genitori dopo nascita di un figlio o a quello di un giovane dopo la discussione della tesi di laurea.

Ogni volta che si passa da una condizione a un’altra occorre fare il lutto della precedente per rinascere a quella nuova.

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Purtroppo la società occidentale contemporanea, culturalmente legata al consumismo sfrenato, agevola le reazioni maniacali anziché il lento lavoro del lutto.

È importante saperlo, conoscere le conseguenze e imparare a chiedere aiuto nei momenti critici.

In conclusione la mancata elaborazione del lutto è la vera ragione che determina l’impossibilità di vivere il nuovo e questo vale per ogni tipo di separazione e di passaggi di vita.

La clinica psicoanalitica ci insegna che l’incontro d’amore avviene solo se si riesce a fare il vuoto dentro di sé. Perché se non si produce il vuoto dentro di sé, se c’è ancora l’ombra dell’altro oggetto, si genera solo confusione, non si sa più con chi si sta, l’inconscio non lo sa più e poi succedono cose buffe… La condizione dell’incontro, come direbbe Lacan, è la produzione del vuoto. [1]


[1] Massimo Recalcati, Lavoro del lutto melanconia e creazione artistica, Poiesis, Alberobello, 2009, pag. 96.

autore

Carla di Quinzio

Filosofa, faccio parte dell’Associazione PHILO pratiche filosofiche e dei servizi convenzionati con l’associazione Smallfamilies®. Sono tra le fondatrici dello “Sportello per madri e padri soli”, iniziativa nata in partnernariato con Smallfamilies®. Per questo sito scrivo consigli/interventi/risposte/ per l’area “Corpo-Spirito-Mente”.

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