Ci sono abitudini cui è difficile rinunciare, e una di esse è il vezzeggiativo usato con le persone amate. In quella parola è nascosta tutta la tenerezza che proviamo per loro. Mia figlia, io la chiamo “piccola”. Mi sembra di affermare, ogni volta che mi rivolgo a lei così, quando vado a trovarla a casa della madre, il mio affetto nei suoi confronti. Spesso la sera scendiamo insieme a portare fuori il nostro cane; e Lei, la mia “piccola”, ha la consuetudine di prendermi sottobraccio e di raccontarmi la giornata, adeguando il ritmo del suo passo al mio.
Io l’ascolto estasiato sia per le confidenze che riferisce a me in quel momento, illudendomi di esserne il solo depositario, sia per quel delicato gesto, il suo braccio agganciato al mio, che mi fa sentire bene.
È una sensazione non esprimibile a parole.
Nessuna di esse, infatti, potrebbe descrivere adeguatamente lo stato di felicità che un padre prova quando la figlia lo accompagna in giro chiacchierando; anzi, come lo definisco io, cinguettando, spensieratamente, come un canarino allegro.
In quel frangente, dalla contentezza, io non cammino, ma levito; augurandomi che il percorso non abbia mai fine. Tanto sono pervaso da quella percezione di benessere che potrebbe transitare davanti ai miei occhi la donna più bella, affascinante, e disponibile, dell’intero universo che manco me ne accorgerei. E Lei, la mia “piccola”, così presa nel suo inarrestabile “cinguettare” neppure si rende conto che, a volte, dobbiamo fermarci ad attendere il nostro anziano cane rimasto troppo indietro.
È così evidente lo stato di grazia che emaniamo, in quel momento, Lei serena e io felice, da suscitare sguardi di simpatia nelle persone che incontriamo per strada. Un giorno, una signora, che percorreva con noi un tratto di marciapiede, rimase molto impressionata nel vedere quanto fossimo affiatati, sicché esortò mia figlia a tenere ben a mente quel momento magico che condivideva con me, poiché, sottolineò con tono penoso, col passare del tempo, quel ricordo si sarebbe affievolito lentamente fino a scomparire del tutto nei meandri della memoria.
Capimmo, dall’espressione malinconica, che la sconosciuta interlocutrice non aveva più il genitore, e il suo sorridere mesto, ci trasmise un senso di tristezza per lei. Rimpiangeva qualcosa evocato da noi. Rammento che non smetteva di guardarci, cercando, evidentemente, di rivedere se stessa quando, all’età di mia figlia, faceva altrettanto con il padre.
Certe emozioni non sono replicabili, soprattutto se non c’è più la persona con cui si sono condivise, però, le si possono riconoscere negli altri.
Ad ogni modo, al di là dell’episodio toccante, a me piace chiamare “piccola” mia figlia; mi fa sentir bene, soprattutto mi sembra di ribadire che non può essercene un’altra.
Più o meno.
Chiamavo così anche la mia ex compagna, sua madre. E fino a quando abbiamo vissuto insieme, quell’appellativo era suo di diritto. Poi le cose sono cambiate e il “titolo nobiliare” è stato ereditato da mia figlia.
Fin qui tutto bene.
Il problema è che io ho sempre avuto l’abitudine di chiamare “piccola” le figure femminili legate a me sentimentalmente. Forse era un modo per sottolineare che le portavo dentro il mio cuore; non lo so. Fino a pochi giorni fa, però, non avevo compreso che quel modo affettuoso era di proprietà esclusiva, ora.
Mia figlia, infatti, ricevendo un mio sms poco chiaro, ha ritenuto che mi fossi confuso e che avessi inviato a Lei un messaggio indirizzato a un’altra persona con cui mi rivolgevo allo stesso modo.
Apriti cielo!
“Che fai, papo, chiami qualcun altra “piccola” al di fuori di me?! Ma bravo!!”.
Ho faticato non poco per chiarirle l’equivoco, e lo era veramente questa volta.
L’episodio però mi ha fatto pensare, spronandomi, quindi, a prendere una decisione non facile: telefonare alla mia attuale partner e annunciarle che, da quel momento, per evitare futuri problemi, non l’avrei chiamata più “piccola”.
Apriti cielo!