Cantava il “Blasco”; ma sarà poi vero?
Noi genitori siamo spesso accusati di essere troppo protettivi nei confronti dei figli.
Può darsi.
Gli esperti in questioni familiari sostengono che proiettiamo su loro traumi e manchevolezze da noi patiti quando eravamo piccoli.
E’ possibile.
A volte, arriviamo a influenzare le scelte dei ragazzi con il pretesto che vorremmo evitargli il ripetere di certi nostri errori.
Anche questo è vero.
Sovente, però, così agendo, li perpetuiamo nuovamente, ma in una posizione ribaltata.
Noi siamo il frutto delle azioni già vissute, alcune anche da altri e, scientemente o meno, e le ereditiamo senza rendercene conto.
Se diamo per buona l’asserzione, diviene tutto più comprensibile.
Un giorno, ho assistito a sbattimenti di piatti in terra, urla e pianti di disperazione di una madre, solo perché il figlio era intenzionato ad iscriversi al liceo scientifico anziché al classico, come invece lei aveva frequentato da ragazza.
Spingeva affinché il giovane facesse la stessa esperienza, che a sua volta le era stata “caldamente consigliata” dai propri genitori; convinta, al di là di quello che lui poteva desiderare, di agire per il meglio.
Tutto deve ricominciare…
Un nucleo familiare di mia conoscenza, si è scisso durante le feste di Natale, esattamente com’era capitato a uno dei due genitori quand’era bambino.
I figli della coppia, che si stava separando, erano increduli che gli adulti potessero agire in quel modo proprio durante le festività, ma il genitore in questione non volle sentir ragione e portò a termine il proposito esattamente come fecero i suoi genitori.
Bel regalo di Natale!
Un’imprenditrice di successo, che conosco molto bene, è abituata a cambiare casa con la stessa frequenza cui da ragazza, con i propri genitori, era costretta a continui traslochi a causa della loro povertà.
L’indigenza non gli consentiva di restare a lungo nello stesso posto.
Ora lei fa la stessa cosa, ma da una posizione privilegiata.
Mai fermarsi, altrimenti i ricordi ci raggiungono.
Da ragazzo sentivo ripetere che i figli di genitori separati, da adulti sarebbero stati dei separati anche loro.
Non ho mai prestato fede a certi luoghi comuni, ma devo riconoscere che, al di là del mutare sociale, le storie delle persone che conosco confermano questa predisposizione.
Secondo la tesi di un ottimo scrittore contemporaneo, dovremmo muoverci nel mondo, anche quello emotivo, solo con bagaglio a mano, lasciare quindi zavorre e inutili pesi psicologici legati al nostro passato nel deposito della memoria.
Viaggiare leggeri, solo con l’essenziale.
Un imperativo facile solo a dirsi.
Viviamo perennemente condizionati dalle notizie che ci colpiscono ogni minuto, e raramente sono gradevoli, e cerchiamo quindi rifugio nelle sicurezze, e una di esse è l’esperienza del nostro vissuto.
E così agiamo come il cane che si morde la coda.
Interpretiamo il tutto attraverso le nostre mappe mentali, forgiate dalle esperienze avute, ma non é detto che esse siano contornate in modo corretto.
Che fare?
Alcuni per non correre questo rischio si conformano a discipline etiche, religiose e terapeutiche.
Grazie, ma anche no; a sbagliare siamo bravissimi da soli.
Ad ogni modo, in questa confusione di esperienze emotive in entrata e in uscita, nessuno è esente da colpe.
Io per primo.
Sono figlio unico e sono stato allevato, in un altro continente, da una donna dal colore della pelle diverso da quello di mia madre che era troppo impegnata ad organizzare feste, e con un padre assente per motivi professionali e caratteriali.
Passata l’infanzia, la mia condizione non é mutata poi molto.
Cambiava solo la latitudine della residenza, la nazione, la lingua e le usanze, ma l’assenza dei miei genitori continuava a perdurare poiché entrambi lavoravano tutto il giorno, e per di più uno all’estero.
Cresciuto da solo, quindi, mi sono educato a collezionare errori di cui nessuno mi aveva parlato.
Con un trascorso di questo genere, mi ritengo più che giustificato a essere un genitore assai “difettoso” nella relazione con i propri figli, poiché, se corrisponde al vero ciò che affermano gli esperti, tutte le mie azioni sono orientate a colmare quella privazione affettiva che avrei patito quando ero piccolo.
E se anche fosse?
Non amo la solitudine, è vero, e ogni qualvolta mi è possibile, cerco di vedere i miei figli o di essere in contatto con loro, e quando vado a trovarli, sciorino, come fossi un mercante imbonitore, racconti, aneddoti e curiosità di vario tipo per catturare la loro attenzione in modo simpatico.
Non sempre ci riesco, ma il tentativo è apprezzato.
Essendo un buon auditore, mi piace anche narrare.
Forse, in quei pochi istanti, riaffiora a livello inconscio il bambino bianco che restava per ore ad ascoltare le interminabili storie che una donna nera gli raccontava mentre lo accudiva; le stesse che lei aveva udito da piccola, tra gli anziani della sua tribù.
Dejà vécu: già vissuto.
Per ovviare all’assenza inconfutabile del mio abitare altrove, quando non è il mio turno di stare con i ragazzi, organizzo una specie di rassegna stampa delle notizie più curiose, che gli invio poi tramite whatsapp.
A volte aggiungo un commento, una didascalia che molto raramente suscita una risposta da parte loro perché troppo impegnati a chattare con amici, fidanzate o altro.
Non importa.
Il gioco delle parti richiede anche questo, tu puoi non rispondermi, ma non puoi evitare di leggermi.
E così, il sottile filo rosso che ci lega non s’interrompe.
È un timido segnale di fumo, nulla di più; un qualcosa che gli ricordi che io ci sono e che sto pensando a loro.
Accadeva anche in Africa, quando da bambino mi svegliavo e mi accorgevo che mio padre era partito per il lavoro che l’avrebbe tenuto via per parecchi giorni.
Correvo nel nostro giardino a cercare i piccoli oggetti tribali che lui aveva disseminato per me, qua e là, sotto le piante; era il suo modo di farmi sapere che mi stava pensando.
Succedeva anche in Italia, quando mia madre che usciva il mattino presto e non la vedevo fino a sera tardi, ero un ragazzino allora, sparpagliava i suoi bigliettini sui vari mobili per rammentarmi, oltre ai doveri, anche il suo volermi bene.
Consuetudine, quella di nascondere biglietti e regali da trovarsi poi in un secondo tempo, che ho sempre praticato anch’io con le persone con le quali ho un legame sentimentale.
Ma a questo punto, quando noi agiamo, siamo veramente liberi nelle scelte, oppure siamo i figli di un vissuto ancestrale che neppure ricordiamo?
Non lo so, però mi viene in mente la risposta che diede un premio Nobel quando gli chiesero se credeva nel libero arbitrio: “Per forza, non abbiamo altra scelta!”.