Eravamo al riparo dalla pioggia sotto un balcone e guardavamo il marciapiede dall’altro lato della strada. L’abbigliamento, giubbotti chiusi e baveri alzati, e la nostra postura, spalle appoggiate al muro, di sicuro, pensavo, avrebbero suscitato inquietudine ai rari passanti. Si capiva benissimo che eravamo lì per fare qualcosa, e questo non giovava alla nostra reputazione. Si, in quel luogo, poco lontano dalla zona in cui abitavamo, eravamo conosciuti sia lei sia io. Mi domandavo se qualcuno avrebbe potuto scambiarci per dei novelli Bonnie e Clyde; fuorilegge di un’epoca transoceanica, ma pensando alla mia età e alla sua mi convinsi che, forse, stavo fantasticando troppo.
La pioggia non accennava a diminuire e l’umidità s’insinuò nelle ossa e pure le scarpe iniziarono a bagnarsi.
Andava presa una decisione. Il mio sguardo perplesso non trovò complicità nel suo che era deciso e fermo. I minuti passavano e il tempo diveniva sempre più stretto, se la cosa andava fatta, avremmo dovuto agire subito perché poi sarebbe stato troppo tardi. Mi propose di cominciare ad avvicinarci almeno alla meta, di attraversare la strada, ma la mia mano sul suo braccio le fece intendere che non ero ancora pronto. Sapevo per esperienza che in quei frangenti non si dovrebbe mai esitare. Lei sempre più impaziente, iniziò ad armeggiare col borsone che portava a tracolla, evidentemente il mio atteggiamento non la stava aiutando. Allora inspirai profondamente e agii.
Feci quello che non si dovrebbe mai fare: attraversare la strada sotto la pioggia, ma non sulle strisce pedonali, costringendo un paio d’automobili a rallentare e colpirmi con i fasci di luce degli abbaglianti. Dannati automobilisti. Lei mi seguì per darmi coraggio. Ormai eravamo a pochi passi dal nostro obiettivo, un lugubre portone spalancato, mentre altre persone stavano arrivando di corsa. Sapevo che ci avrebbero riconosciuto e a quel punto non avremmo avuto più molta scelta: mio malgrado, saremmo dovuti entrare. Alla reception la signorina dietro il bancone ci accolse con un sorriso, ignara di quello che stava per accadere, mentre Lei iniziò a far scorrere la cerniera del borsone. Andai avanti io, offrivo il mio corpo per nasconderla; le davo l’opportunità di tirarsi ancora indietro, se mai avesse voluto cambiare idea. Mentre aprivo lentamente il giubbotto, accadde qualcosa che non avevo previsto. Un ragazzo arrivò di corsa e guardandola le disse: “Anche tu in ritardo?”. Maledetto impiccione, perché non ti fai gli affari tuoi, pensai.
Fu così che mia figlia mi salutò velocemente infilandosi nello spogliatoio femminile per cambiarsi; mancavano pochi minuti all’inizio della prima lezione di kick boxing.
Mi ritrovai solo, spaesato e guardato con compassione dalla segretaria mentre le porgevo il certificato medico d’idoneità all’attività sportiva. Altri genitori, quasi tutti uomini, si stavano tormentando davanti ai monitor che riprendevano l’attività all’interno della palestra. Le nostre figlie, lì dentro, avrebbero dovuto cavarsela da sole, pensavamo preoccupati. Lo sguardo di solidarietà tra noi, incalliti padri di famiglia, era più esplicito di mille parole. Un’ora di tortura e poi avremmo riabbracciato coloro che ritenevamo non potessero fare ancora a meno della nostra protezione. O per lo meno così ci piaceva credere. Vivevamo proprio in tempi oscuri, dove le ragazze imparavano a difendersi da sole e dove, forse, avrebbero difeso pure i loro papini. Robe da matti.