ESPERTI - consigli & convenzioni Lavoro e Fisco

Demansionamenti riservati alle madri che rientrano al lavoro: si tratta davvero di mobbing?

scritto da Ilaria Zanesi

Spesso si parla di “mobbing” sul posto di lavoro ma raramente si sa davvero di cosa si sta parlando. Chiariamo innanzitutto che non si può configurare il mobbing in qualsiasi comportamento aggressivo, intimidatorio, offensivo posto in essere dal datore di lavoro o da un collega sul posto di lavoro.Il mobbing consiste in una serie di azioni, che si ripetono per un lungo periodo di tempo, compiute da uno o più “mobbers”, per danneggiare qualcuno, in modo sistematico e con uno scopo preciso: provocarne il licenziamento o indurlo alle dimissioni; un insieme di strategie comportamentali volte alla distruzione psicologica, sociale e professionale del lavoratore mobbizzato. ‎

Tali azioni “mobbizzanti” possono manifestarsi in atti vessatori, persecutori, critiche e maltrattamenti verbali esasperanti, molestie sessuali, offese alla dignità, delegittimazione di immagine anche di fronte a soggetti esterni all’impresa (clienti, fornitori, consulenti)‎, sottostima sistematica dei risultati, attribuzione di compiti molto al di sopra delle possibilità professionali o della condizione fisica o di salute del lavoratore, attuati con lo scopo di discriminare, screditare o comunque danneggiare il lavoratore nella propria carriera, status, potere formale e informale, grado di influenza sugli altri. ‎

Di norma il fenomeno prende avvio da un conflitto non risolto e spesso neppure dichiarato (magari creatosi per motivi facilmente risolvibili)‎, fra colleghi o fra lavoratore e superiore, sul quale, se un chiarimento non sopravviene in tempo, s’innesca una escalation di molestie difficilmente arrestabile, dove si perde di vista lo scopo primario del conflitto e quel che conta è “eliminare” il lavoratore mobbizzato con ogni mezzo, con grave danno per l’ente stesso, che spesso vede drasticamente ridotta la produttività lavorativa sia della vittima che degli stessi aggressori.

Herald Ege, uno dei principali studiosi di questo fenomeno ha definito il mobbing come “una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisica permanente”. (Mobbing, Pitagora Ed. a pag. 75)‎

Spesso nei casi di mobbig si individuano azioni di demansionamento o addirittura svuotamento delle mansioni, con riduzione del lavoratore alla quasi o totale inattività, che arreca al lavoratore un danno alla professionalità.

Il danno derivante dall’azione di mobbing attiene generalmente alla sfera psichica del soggetto al quale segue spesso un danno più strettamente fisico.

Agli albori delle cause di mobbing (anni 1997/2006) i lavoratori chiedevano e spesso erano loro riconosciute varie voci di danno (dal danno professionale a quello alla dignità professionale, da quello esistenziale fino ad arrivare al danno biologico), che venivano cumulate tra loro con duplicazione delle voci risarcitorie per una stessa fattispecie.

Con la sentenza n. 26973 del 11.11.08, le Sezioni Unite della Cassazione hanno chiarito e stabilendo che, nel rapporto di lavoro, la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, imperniata specialmente sugli art. 2103 (il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione(..)) e 2087 c.c (secondo il quale l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro), si estende al ristoro di beni ed interessi di natura non patrimoniale; che il danno non patrimoniale è il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona umana, espressamente tutelati dalla legge o muniti di rilievo costituzionale “non connotati da rilevanza economica” e infine che lo stesso costituisce una “categoria unitaria, non suscettiva di suddivisioni in sotto-categorie”.

Il danno risarcito deve quindi essere conseguenza della lesione di un diritto costituzionalmente garantito, deve essere di non lieve entità e deve essere provato dal lavoratore attraverso testimonianze di colleghi di lavoro, parenti e amici nonché di certificazione medica adeguata.

[foto tratta dalla pagina www.examiner.com]

autore

Ilaria Zanesi

Avvocata del diritto del lavoro, mamma di Davide e Matteo: insieme al loro papà conciliamo con fatica e successo la vita di genitori e liberi professionisti. Per Smallfamilies risponde a domande e offre spunti in materia di diritto del lavoro.

lascia un commento