La verità è che io, con l’uomo con cui ho vissuto dieci anni, non avrei dovuto trascorrere nemmeno un giorno. Siamo due persone incompatibili, tarate in modo troppo diverso per veramente ‘condividere’ un cammino.
E’ sempre stata una relazione difficile, sin dall’inizio, e io avevo tutti gli elementi per potermi dire: lascia stare, non è per te. L’innamoramento è stato più forte. Ma più forte ancora è stata quella convinzione tutta femminile del: ‘io riuscirò a fare in modo che… cambierà… con me sarà diverso…’
Ovviamente non solo non ho salvato lui, ma neppure me stessa. Mi sono sfilacciata in un rapporto sempre conflittuale, adattandomi alla sua modalità come se fosse l’unica soluzione possibile. Ovvero quella in cui l’Io e il Tu non diventano mai Noi. Restano due entità che solo occasionalmente, e miracolosamente, si sovrappongono e che prevalentemente purtroppo competono.
Insomma una fatica vera. La separazione è stata inizialmente molto sofferta, a causa di una lunga assuefazione a quello che ormai vivevo come un destino, un ruolo assegnato, ma di fatto è stata una vera liberazione e, ora come ora, dopo anni, aggiungo: è stata la mia salvezza!
La separazione non è stata però definitiva, perché io e lui abbiamo un figlio in comune, Paolo, adolescente. E non solo: lui ha anche una figlia ormai grande, avuta dal precedente matrimonio. Inoltre: io ho buoni rapporti con sua figlia, Teresa, e con la mamma di questa figlia. E ancora: mio figlio è molto amico di Giacomo, figlio che la mamma di Teresa ha avuto più o meno nello stesso periodo in cui è nato Paolo. La nostra è una smallfamily (io e mio figlio Paolo) innestata in un big contesto che ha potuto nascere e crescere inizialmente soltanto grazie alla disponibilità di noi due mamme (la posizione per lui non era ‘comoda’ e certo lui non ha favorito la frequentazione reciproca…) e che ora viene tenuto vivo da tutti autonomamente, ed è la vera bella eredità di tutto quanto è accaduto. Matrimoni, separazioni, cambi di case, infinite telefonate, fatiche, ma alla fine ci sono tre ragazzi che si vivono come fratelli.
Lui vive con un’altra donna. Io invece sono felicemente single.
La separazione ha giovato al rapporto di lui con entrambi i figli. Sia con Teresa sia con Paolo si è verificata la stessa dinamica. Per una persona che ha sempre anteposto le ragioni del suo lavoro e della sua socialità personale alle ragioni della famiglia, la separazione ha comportato la necessità di una presa di responsabilità maggiore, la necessità di definire dei momenti certi di presenza e di disponibilità, in stile contrario all’abitudine a delegare su tutto a me o, prima, alla mamma di Teresa (salvo poi aver da dire su tutto perché lui avrebbe fatto certamente meglio…)
Lui non è cambiato, rimane quello dalla verità in tasca, quello più portato allo scontro piuttosto che al confronto, ma sono cambiata io.
Io so, non solo di poter fare a meno di un confronto alla fin fine sterile, ma so di non rischiare più di rimanere ferita da tutto questo. So di riuscire a fare il passo indietro perché in realtà non sono più interessata a dimostrare nulla, a imporre nulla, e sono in grado di capire ed accettare il limite di comprensione che c’è tra noi, perché di questo si tratta.
La nostra relazione è ottima, sotto un certo punto di vista. Trattiamo solo argomenti, prevalentemente pratici, che riguardano nostro figlio, e non litighiamo, anzi, all’apparenza sembriamo ottimi amici.
Non ho avuto problemi economici, sono fortunata. Io ho un’attività precaria, guadagno poco, ma ho ancora genitori presenti e lui, da questo punto di vista, è una persona molto corretta, leale. Generosa.
Il mio problema sta nell’aspetto più propriamente educativo.
In questi ultimi anni mi sento molto evoluta, sento il risultato di un lungo lavoro introspettivo. Sento radicate le mie convinzioni e guardo mio figlio crescere con un po’ di rimpianto che non riesco a debellare pur nella convinzione della sua assoluta inutilità. Quale rimpianto? Mi guardo, ci guardo, e mi dico che mi piacerebbe se ci fosse un sistema di riferimento educativo condiviso. Che non c’è e non c’è mai stato.
Lui, il papà di Paolo, tuttora immagina di essere presente nell’educazione di suo figlio, immagina di condividere con me le scelte fondamentali, come ha sempre immaginato di ‘fare tutto con me’ anche quando vivevamo insieme. Ma non era così allora, come non è così oggi. Troppo ego. La condivisione è di fatto apparente.
Nelle scelte e nella gestione quotidiana io ero e sono sola. Non che questo mi renda triste o scontenta, non che mi senta misera. Non c’è vittimismo in questa constatazione. Anzi.
Sono molto grata alla vita, e sono molto felice di quello che ho, di questa famigliona che contiene la mia piccola famiglia, perché leggo tutta la mia storia come una bellissima opportunità di apertura mentale, per me e per mio figlio. Sono felice del fatto che, ognuno a proprio modo, siamo riusciti a far passare che sì, abbiamo fatto molti casini, ma nel casino abbiamo costruito sul Bene. Ognuno, sebbene non sempre consapevole del proprio apporto e dei propri limiti, ha avuto del Bene da dare e questo Bene è arrivato e arriva, in modi a volte insospettabili. So che ci siamo, gli uni per gli altri. Ma, dentro la mia casa, siamo due e lì mi rendo conto del potenziale deflagrante che sta nelle mie mani, del potenziale di condizionamento nei confronti di mio figlio, che è tutto mio.
Condividere nel quotidiano serve a questo, serve ad evitare che una persona si assuma responsabilità in eccesso rispetto alle sue possibilità, serve a non accentrare, a non ridurre le prospettive a una sola.
In mancanza di un criterio condiviso almeno in due, bello sarebbe condividere dei criteri su un’altra scala. Ma sappiamo bene che ormai ogni casa ha modalità e regole proprie, sappiamo bene che manca un riferimento comune, che non esiste più il: dopo carosello tutti a nanna. Ora ognuno naviga da sé, e naviga a vista.
Mi guardo indietro e ogni tanto non posso proprio credere al fatto di non avere dato sufficiente importanza a ciò che oggi mi sembra imprescindibile. Ed è per questo che non riesco sempre a tacitare l’inutile rimpianto. Quello di non avere scelto, per fare famiglia, un uomo che prima di tutto ‘condividesse’ con me desideri e criteri, sul serio, nel profondo.
Oggi cerco di condividere con mio figlio tutte le persone con cui ho un legame, che vivono secondo principi e convinzioni analoghe alle mie, con desideri comuni.
Con la separazione si è volatilizzato un sistema di rapporti e di frequentazioni legate al padre e alla sua cerchia amicale. Lì per lì è stato uno schiaffo, è stato shockante, tante relazioni mi sembravano acquisite, indipendentemente da. Invece no.
Ma in fondo è stato un bene. Evidentemente molto era teatro, era facciata. E’ rimasto quel che regge, ed a questo si è aggiunto tanto, in questi anni.
Quando vivevo con il padre di mio figlio era come se mi fossi abituata a dover sempre scindere: le mie amiche, il mio coro, le mie cose e poi le cose con lui. Ora non ho, si può dire, la mia vita senza mio figlio. Mio figlio c’è sempre. E quando non c’è, gli racconto. I miei amici e le mie amiche sono anche i suoi. E questa è la mia felicità massima.
Ciò che farei oggi è vivere in una comunità. Ho voglia di mettere in pratica un profondo bisogno di fraternità, di scambio autentico.
Non so, forse ci proverò, chissà. Intanto cerco di allacciare relazioni dentro un’ideale comunità affettiva. E smallfamilies in tutto questo mi sembra una grande opportunità. Immagino e spero che con smallfamilies si abbia la possibilità di essere in rete con persone affini. E’ già molto bello che ci siate, che ci abbiate pensato, che abbiate creduto opportuno creare un ideale luogo di incontro. Mi auguro che promuoverete iniziative perché le persone si incontrino, si conoscano, scambino, non solo virtualmente ma anche di persona.
Grazie e buon lavoro!
Ida Maria e Paolo