La Corte costituzionale interviene di nuovo sul sistema di attribuzione del cognome ai figli. Dopo la sentenza storica del 2016, che di fatto aveva dato il via libera al cognome della madre ai figli nati nel matrimonio, è stata sollevata ora la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 262, primo comma, del Codice civile che regola l’assegnazione del cognome da dare ai figli nati fuori dal matrimonio. Nelle motivazioni dell’ordinanza, depositata l’11 febbraio scorso, i giudici ribadiscono che l’attuale meccanismo “è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia” e di “una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna”. Permangono quindi squilibri e disparità fra i genitori a cui il legislatore non ha ancora posto rimedio, nonostante i ripetuti solleciti.
La vicenda nasce dal Tribunale di Bolzano che ha chiesto di dichiarare incostituzionale la norma del Codice “là dove non prevede, in caso di accordo tra i genitori, la possibilità di trasmettere al figlio il cognome materno invece di quello paterno”. La Consulta però è andata oltre, rimettendo a se stessa la questione di legittimità dell’articolo 262, perché “qualora venisse accolta la prospettazione del Tribunale di Bolzano, in tutti i casi in cui manchi l’accordo dovrebbe essere ribadita la regola che impone l’acquisizione del solo cognome paterno“. In questo modo, però, verrebbe riconfermata “la prevalenza del patronimico, la cui incompatibilità con il valore fondamentale dell’uguaglianza è stata riconosciuta, ormai da tempo, dalla stessa Corte che ha più volte invitato il legislatore a intervenire”.
Il relatore dell’ordinanza, che verrà depositata nelle prossime settimane, é Giuliano Amato, lo stesso giudice che ha firmato la sentenza del 2016 con la quale è stata data la prima spallata all’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, dichiarandola incostituzionale “in presenza di una diversa volontà dei genitori”.
Un’eventuale pronuncia di incostituzionalità metterebbe l’Italia in linea con la giurisprudenza della Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali). Lo Stato ha, infatti, sottoscritto il Trattato di Lisbona che, tra l’altro, vieta ogni discriminazione fondata sul sesso. E la Corte di Strasburgo ha condannato il nostro Paese, ritenendo “discriminatoria verso le donne” e una violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo l’inesistenza di una deroga all’automatica attribuzione del cognome paterno.