STORIE

La mancanza come parte dell’Essere. Diventare vedova a 36 anni.

scritto da SF storie

Sono Valentina, insegnante con due bambini di tre e un anno. Vorrei poter parlare con qualcuno “come me” e per questo ho deciso di scrivere a Smallfamilies. Se mi chiedete chi mi aiuta, rispondo: “i miei genitori”, e se volete sapere cosa mi serve per vivere meglio sorrido e penso: “mi serve Riccardo. Impossibile.” Realisticamente mi serve tutto! Lo Stato non ci riconosce perché non esiste stato sociale per noi vedove con figli.

Cosa si può fare?

Ancora oggi non posso andare al supermercato perché mi sembra di scorgerlo tra gli scaffali. Entro nel market locale e in fretta butto nel carrellino rosso quello che mi serve per mettere insieme la cena o il pranzo. E puntualmente dimentico qualcosa. È stata la prima volta in cui mi sono davvero resa conto di essere rimasta sola: quando, dopo il trasloco nella casa nuova, come la chiama E., mi sono trovata per la prima volta a fare la spesa. Non avevo la minima idea di cosa acquistare. Non mi serviva più niente. Non avrei più cucinato. E così è stato. La sera preparo qualcosa per i bambini, una minestra con petto di pollo e pisellini, un risotto, pesce ai ferri con patate. Niente di sofisticato, di elaborato, di ricercato, come accadeva prima. A lui piaceva mangiare bene, gli piaceva mangiare e basta. E bere. A novembre andavamo alla ricerca del Novello, da bere con un risotto ai funghi o i ravioli di zucca. Ora solo acqua naturale.

Sono rimasta vedova a trentasei anni. Con un bambino di due e incinta di otto mesi. Da allora tutto è cambiato: cambio di casa, trovarsi da sola, non sapere più chi sono. Ritrovarmi con prepotenza ad abitare un vita che non ho scelto, adattarmici e farmela piacere. Scoprire che essere vedova a trentasei anni è di gran lunga peggio che a settanta.

In India le vedove si gettano sulle pire funebri dei mariti. Da noi cosa succede? Ci si rimbocca le maniche, fino alle spalle e si va avanti. Con una certa incredulità, del tutto ineluttabile: appena ho capito che tutto sarebbe cambiato, il primo pensiero è stato di sollievo. Mi sono detta: che importa se è morto, domani morirò anche io. Moriremo tutti.

Invece no. Invece non è morto nessun altro. Solo lui. Si sopravvive indossando una maschera e cercando di ricollegare quei fili strappati dalle Parche a qualcosa d’altro. Qualcosa di nuovo. Si tagliano molti altri fili, quelli con le relazioni ormai inutili, ormai incomprensibili, ormai lontane. Si sopportano i commenti: “Hai i tuoi figli, non basta?”. No, direi proprio di no. Oppure: “Vedrai, col tempo…”. Col tempo cosa? Passerà? La mancanza ormai è diventata genetica, fa parte delle mie cellule, del mio dna. Sembra una malattia incurabile. Non passerà mai.

A volte mi sembra una ferita aperta, marcia e purulenta. Altre invece è come una presenza costante, lieve ma fastidiosa. La mancanza è allungare una mano e non avere più nulla da afferrare. Continuare a tenderla e agguantare l’aria, o il vuoto. La mancanza e la rabbia si stemperano, si diluiscono. Si armonizzeranno, come dice la mia terapeuta. Vorrei essere impazzita. O avere la speranza di impazzire. Perdere la lucidità, il contatto con la realtà e con il dolore. Ma non succede. E non succederà mai. Perché sono forte. Quello che resta è il senso di colpa -inconscio- di chi sopravvive. Quello che resta sono io. Siamo noi. E, nonostante il tempo che passa, non ho ancora capito se mi piace.

 

 

autore

SF storie

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