Marina Bozza ha scritto per noi la storia di Alexandra contagiata dal coronavirus ed ora in via di guarigione. Una storia che ci racconta della sofferenza, disperazione, solitudine di questa mamma single; delle richieste di aiuto rimaste inascoltate, dell’incapacità del sistema di assistenza e cura di intervenire con prontezza ed efficienza. Una vicenda che lascia senza parole ma che ha anche il potere di ricordarci il valore inestimabile della solidarietà, dell’empatia, della condivisione. Ringraziamo Marina per essere stata accanto ad Alexandra e di averci permesso di condividere questa testimonianza.
“Alexandra ha 43 anni, è peruviana, in Italia da circa 20 anni. È separata con un figlio di sette anni. Lasciata dal marito, si trova a non avere un soldo dall’ex e a dover fare due lavori, uno in nero e l’altro regolare, per mantenere la sua piccola famiglia.
Non appena chiudono le scuole per l’emergenza coronavirus Alexandra si trasferisce col figlio da un’amica, anche lei sola con due bambini. Pensano subito che gestire i bambini insieme risulterà più semplice per tutti.
Dopo pochi giorni di vita in comune Alexandra comincia a stare male, febbre, dolori, tosse, mal di testa. Capisce immediatamente che è rischioso rimanere con l’amica e i bambini, decide di tornare a casa sua.
Io la sento al telefono, capisco immediatamente la gravità del suo stato. È confusa, si lamenta, comincia ad avere dolori al petto. Cerca di contattare la sua dottoressa, ma non ci riesce.
Nel frattempo anch’io cerco di capire come aiutarla ad attivare altri canali. Sono i primi giorni del lockdown. Le fornisco qualche numero di telefono, mi dice che tutti i centralini sono intasati, compreso il 112. Nessuno risponde e dopo un po’ cade la linea. La sento affaticata, nelle sue condizioni non riesce a rimanere troppo al telefono, le scoppia la testa. Mi dirà poi che non si ricordava neppure cosa doveva fare, probabilmente la febbre alta la rendeva semi-cosciente.
Intanto a me sale un po’ il panico, non sono ansiosa di natura, ma la situazione mi spaventa. Mi rendo conto che è sola, con una probabile polmonite da Covid, senza farmaci, senza assistenza e che per di più è asmatica. E suo figlio ha solo lei al mondo.
Il giorno dopo insisto che riprovi con la sua dottoressa, per fortuna la trova.
Ascolto la registrazione della telefonata, rimango allibita. La dottoressa le spiega che deve passare dal suo ambulatorio per ritirare un’impegnativa per fare una lastra d’urgenza ai polmoni: le dice di andare in un ospedale a circa 40 km di distanza, poi con il referto ri-passare al suo ambulatorio, lasciarlo in visione e poi eventualmente iniziare l’antibiotico. Alexandra ha febbre alta, una brutta tosse, dolore ai polmoni, non si regge in piedi, figuriamoci se può guidare per 40 km. Le dico di mandare un’amica a ritirare impegnativa e antibiotico, alla lastra ci penseremo in un altro momento. Una cosa però è chiara: il suo medico non passerà sicuramente a visitarla.
Nel frattempo chiedo ad un amico medico se posso farle iniziare l’antibiotico, anche senza lastra. Da quello che ho letto sul Covid le complicanze più gravi si hanno quando la polmonite da solo virale diventa anche batterica. Il suo parere mi conforta e così Alexandra inizia subito l’antibiotico.
Dopo circa 24 h ci sono i primi segnali di miglioramento, e così per i giorni successivi. Inizio anch’io a rilassarmi. Ci mandiamo brevi WhatsApp, non voglio farla parlare troppo. Una mattina mi manda la foto con il termometro che segna 36.4 “sto guarendo vero?”. Grido di gioia, cerco di trasmetterle buoni pensieri, le invio emoticon con le faccine, con le mani che applaudono, sembro un po’ scema. Riesco lontanamente ad assaporare quella soddisfazione e felicità che hanno i medici quando i loro pazienti rispondono alla terapia. L’unica cosa che le raccomando è di farsi prescrivere ancora l’antibiotico, finché anche la tosse non se ne sia andata via completamente. Alla richiesta di altro antibiotico, la sua dottoressa però chiede la lastra ai polmoni e Alexandra, che adesso sta un po’ meglio, decide di andare al pronto soccorso dell’ospedale più vicino.
Al pronto soccorso capiscono immediatamente che è una potenziale positiva Covid, intanto la febbre si rialza a 39. La fermano, le fanno la lastra, il tampone, e la ricoverano. Lei piange, ha paura, ha il terrore di non uscire più dall’ospedale, di non rivedere più suo figlio. Cerco di convincerla che è proprio per suo figlio che deve rimanere in ospedale, le chiedo però di inoltrarmi il numero della sua amica forse un po’ di paura viene anche a me. Però mi sento sollevata, finalmente dopo circa 2 settimane di solitudine assoluta viene visitata da un medico ed è in una struttura sicura. La mia funzione è terminata, posso rilassarmi.
E invece la mattina dopo viene dimessa, mi chiama mentre sta tornando a casa. E mentre cammina sento che le sta venendo un attacco d’asma, quindi cerco di non farla parlare troppo. Ma sono furiosa, mi viene da piangere. Come è possibile che la dimettano con quel quadro clinico? Una polmonite bilaterale in un’asmatica che vive da sola, poi guardo meglio il referto: l’ultima misurazione del saturimetro è 99, quindi tutto chiaro, fuori dai piedi.
Dall’ospedale esce con il famoso Plaquenil e un altro antibiotico. Arriva a casa e deve subito trattare la crisi d’asma, per fortuna ha i suoi farmaci d’emergenza. Capisco che sarebbe utile avere un saturimetro, mi metto a cercarlo su Amazon, consegna fine maggio. Me l’aspettavo, rinuncio. Aspetto un paio d’ore, le scrivo il solito whatsapp “Come va?” “Meglio”. Almeno la crisi d’asma è passata.
Le giornate successive scorrono con un bollettino quotidiano fatto di brevi messaggi scritti per non affaticarla, le cose migliorano visibilmente. Poco alla volta sembra tornare in se stessa, sempre più presente, sempre più reattiva, ricominciamo a telefonarci.
A qualche giorno dal ricovero le comunicano la diagnosi del tampone: ovviamente positiva. Paradossalmente da quando sta meglio ma è ufficialmente positiva, inizia a ricevere qualche telefonata di supporto. Anche la sua dottoressa improvvisamente sembra preoccuparsi di più, le scrive addirittura un paio di sms per chiederle come sta. Insomma il mondo si è accorto che è un caso vero, da tenere sotto controllo. Le ripetono allo sfinimento che non deve uscire da casa le chiedono dov’è il bambino per assicurarsi che sia al sicuro, le chiedono persino se ha qualcuno che le porta il cibo. La protezione civile le porta pure un pacco di viveri con la colomba e ci commuoviamo assieme. Insomma iniziano a comparire timidi segnali di normale umanità, anche se di visita medica a domicilio, neanche a parlarne.
La storia non è ancora finita, ma voglio pensare che abbiamo scollinato.
Ancora oggi, a più di un mese dall’inizio, son sempre più convinta che, più del funzionamento della nostra assistenza sanitaria, abbia contato la sua necessità di sopravvivere. Ho vissuto momenti di terrore, di rabbia, di angoscia perché nulla di quello che normalmente funziona ha funzionato.
E ho capito che una persona sola, con un bambino che dipende esclusivamente da lei, vive il suo male con una carica di disperazione molto più profonda, e spero che in quei giorni quella disperazione l’abbiamo un po’ condivisa, almeno per non renderla un insopportabile macigno”.