Evidentemente non eravamo fatti l’uno per l’altro. Dopo venti anni di convivenza, anche armoniosa, non si poteva andare ancora oltre. Eravamo diversi in tutto; forse troppo.
I motivi di disaccordo spaziavano dal mare alla montagna, dal freddo al caldo, dal pesce alla carne, dalla musica ai film o alle notizie del telegiornale. Le diversità avrebbero dovuto essere un arricchimento della coppia, ma nel nostro caso erano un ulteriore elemento di polemica. Lei concreta e pratica (per lo meno così amava definirsi) e io evanescente e mezzo inconcludente, come molte volte da lei stessa additato.
Spesso mi esortava a tornare con i piedi sulla terra, luogo da cui fuggivo tenuto conto delle miserie affettive sentimentali e fisiche che vedevo intorno e di cui, a volte, ero spettatore e vittima nello stesso momento. Può darsi che la nostra reciproca insofferenza, fosse dovuta anche alle situazioni pregresse irrisolte sin dall’infanzia (le sue meglio non approfondirle) e alle condizioni ambientali non propriamente adeguate: casa piccola e ingerenze dei suoi familiari.
Più probabile che dipendesse dalle relative aspettative.
Lei si era innamorata di un’idea del sottoscritto che non corrispondeva alla realtà; io, viceversa, ricercavo un’affettuosità e complicità che non le appartenevano. E nonostante ciò, abbiamo vissuto i primi dieci anni relativamente felici; poi le cose cominciarono a sfilacciarsi ogni giorno di più fino ad arrivare all’esaurimento. La depressione che colpì entrambi si manifestò in maniera differente: tutto grigio e apatia da una parte e inconfessabili pensieri brutti dall’altra. Tenevamo duro per amore dei figli, convinti che la loro semplice presenza fosse il collante che avrebbe garantito la non rottura della famiglia.
Per loro avremmo fatto qualsiasi cosa; a quel tempo.
Decidemmo, infatti, che le camere da letto fossero date ad entrambi (un maschio e una femmina) e che noi ci saremmo adattati a dormire all’americana: nel divano in soggiorno. Luogo non propriamente adatto a suscitare effusioni di coppia. Dettaglio non irrilevante poiché, a volte, gli inevitabili malumori del quotidiano vivere trovano soluzione in un abbraccio più intimo. Eravamo in disaccordo anche in questo; e quel rapporto fisico, che tante incomprensioni livella, nel tempo, iniziò a diradarsi fino a scomparire del tutto.
All’inizio la cosa non sembrava suscitare apprensione, poiché eravamo invasi, sommersi dalle affettuosità e tenerezze dei nostri figli che non perdevano l’occasione per abbandonare le proprie stanze e venire a intrufolarsi tra noi due nel divano-letto. Era palese che il solo pensare di avere un “rapporto fisico” con l’altro andava oltre le nostre capacità, e utilizzavamo, quindi, quelle ingenue presenze come scusa.
Avevamo eretto un muro adottando proprio loro come nostra miglior difesa.
Trovammo anche il coraggio di affrontare, sporadicamente, l’argomento, ma erano le motivazioni a fare la differenza. Non collimavano più; eravamo rette parallele destinate a non incontrarsi e il chiedere consiglio a qualche terapeuta non rientrava nelle sue priorità. Per una come lei era ben strano, ma il tempo poi mi chiarì il perché. Aveva bruciato i ponti alle spalle e indietro non si poteva più tornare. Nessun recupero era possibile, potevamo procedere solo in avanti fino al bivio che s’intravedeva all’orizzonte. La condizione economica che poteva essere un fattore di polemica per molte coppie, nel nostro caso non lo era. Non navigavamo nell’oro, ma non ci mancava assolutamente nulla, anzi, spesso ci consentivamo delle vacanze talmente costose che erano uno schiaffo, immorale, alle condizioni della maggior parte delle famiglie, anche quelle abbienti.
D’accordo, negli ultimi anni questo era possibile grazie ai suoi guadagni, i miei si erano prima ridotti al lumicino poi a zero sia per la crisi economica sia perché, a fronte di essa, mi occupavo a tempo pieno della famiglia.
Lei usciva da casa e andava in studio, tre giorni la settimana, mentre io dovevo occuparmi del resto: preparare la colazione, pranzo e cena, rifare le stanze e i letti, lavare i piatti, fare la spesa, portare e riprendere i ragazzi da scuola, seguirli nei compiti pomeridiani, andare ai colloqui insegnanti e consigli di classe, portarli in palestre o piscine, condurre più volte giù il cane, andare alle riunioni condominiali, in posta, in banca e in assicurazione, smontare vecchi mobili e montarne di nuovi. Equilibrismi di non facile esecuzione, anche quando qualcuno di noi si ammalava, ma tant’è. E se avanzava del tempo, cercare di occuparmi anche a risollevare la mia professione, seppur ormai ridotta un pallido ricordo; non per causa di lei o mia, la crisi colpiva tutti i settori e quello creativo-artistico era il primo a essere saltato in aria.
Oggigiorno è una condizione assai comune in Europa; noi, probabilmente, avevamo precorso i tempi; nella nostra famiglia i ruoli si erano invertiti: lei portava i soldi in casa e io la facevo andare avanti. E fino a quando ho potuto occuparmene, i risultati non sono mancati: figli promossi con ottimi voti, casa in ordine e cane in salute. Tutto andava bene durante il giorno, ma i problemi affioravano al momento della sera: il suo rientrare dallo studio. La fatica mentale cui era sottoposta, è una psicologa cui tutti riversavano problemi reali e fittizi, spesso più i secondi dei primi, la consumava lentamente. La sua generosa disponibilità la induceva a non rispettare i tempi previsti dell’ora “terapeutica”, portandola, di conseguenza, a trascurare la pausa pranzo, dedicando pochi e frettolosi minuti al nutrimento, quando era in studio.
Così oltre alla stanchezza mentale, avveniva il deperimento fisico.
Il lavoro, però, non era la vera causa, poiché anche quando era a casa o in vacanza, il suo nutrirsi era simile a quello di un uccellino. Qualcosa la divorava dentro e la erodeva un giorno dopo l’altro, portandola a dimagrire in modo assai evidente.
Ero io.