Quando ci si separa da una persona con cui si sarebbe voluto condividere la vita è sempre difficile affrontare le giornate perché ci si sveglia e ci si sente soli. E svegliarsi sentendosi soli, nonostante si fosse a volte addirittura sperato che accadesse, nonostante si sia magari sperato che l’altro lo facesse, nonostante non si abbia mai veramente voluto cercare la voglia di guardarsi dentro e scegliere, ecco, ciononostante, sentirsi soli è una sensazione da cui ci si può sentire annullati. I primi tempi sono un macigno sul cuore, pieni zeppi di buoni spunti per sentirsi falliti, inetti, derisi, raggirati, vendicativi, depressi, rancorosi.
Spunti per cullare il rimorso, per sentire l’amaro negli occhi e nel cuore. Per sentirsi improvvisamente inabili al sorriso. Per desiderare fortemente di lasciarsi andare alla malinconia, al tetro, al cupo. Per desiderare il buio. Per desiderare di non essere, di non esserci.
Il tutto magari avendo di fronte un figlio, una figlia, o più, magari piccoli, di fronte ai quali è necessario essere come sempre, per rispetto dei quali occorre farsi violenza, parlare, incontrare l’unica persona che in quel momento non si vorrebbe sentire né vedere, con la quale si avrebbe bisogno di stabilire un blackout temporaneo.
È comprensibile razionalmente, ma è difficile capire intimamente, è difficile accettare lì per lì che possa davvero essere come ti stanno suggerendo, ovvero che quella fase sia una possibilità, un’occasione, che quel passaggio non sia un eterno limbo, ma che sia al contrario l’inizio di un viaggio al termine del quale si è destinati a stare molto meglio, destinati a trovare soluzioni inedite, a ringraziare per quanto accaduto, a perdonarsi e perdonare.
La bellezza della vita è che prima o poi si può davvero arrivare a questo, si può davvero sentirsi pacificati, ripuliti, si può davvero sentirsi dei reduci fortificati dalla guerra combattuta e vinta. Si può.
Certo, accade passo passo, occorre tempo, magari molto, ma accade.
A me è successo.
Mi è successo di avere la straordinaria “occasione” di rimescolare le carte e scoprire che c’era già tutto, scoprire che potevo bastare a me stessa per essere me stessa e per essere madre. Madre non solo degna, ma madre felice, senza rimpianti.
Si può. È necessario voler iniziare da qualche parte. Voler partire per la guerra. La guerra contro le proprie paure, contro i propri impedimenti. È necessario voler trovare il cuneo con cui iniziare a scardinare l’ordine delle abitudini mentali e non, il cuneo con cui segnare l’inizio del viaggio. A seguire poi, per navigare fino alla meta, si possono via via cercare e usare tanti strumenti.
Uno dei miei strumenti, nel tempo, è stato un gioco cui dedicavo un momento della sera e che avevo così chiamato: parole in fila.
Parole in fila:
Chiudo gli occhi e vedo le parole ascoltate nella giornata gremire una piazza, stiparla all’inverosimile. Le vedo dall’alto. Sono una massa indistinta che si agita perché ogni singolo vorrebbe essere notato in modo da garantirsi la sopravvivenza. È l’unico modo. L’occhio infine cade. Dove? Su chi si agita e sbraita di più, su chi per qualche motivo ha una presenza maggiore degli altri. Sono le parole del giorno.
Ogni giorno, da una scia indistinta di suoni si stagliano nitide, memorabili, una, due, tre parole. A volte una frase, a volte persino due.
Da lì parte il mio gioco. Gioco che va giocato subito perché la piazza si svuota con la notte. E si prepara a ricevere altri ospiti l’indomani.
Il senso del gioco: trovare il nesso tra le parole che si mettono in mostra, trovare il filo che le unisce. Il risultato a volte è esaltante.
Esempio: oggi, 28 luglio
Una persona che fino a ieri avrei potuto definire legato a me solo da un rapporto di simpatia reciproca, direi lontana, mi ha scritto oggi un’email, unica email che mi abbia mai scritto, peraltro, diretta, personale, intima. Permettendosi ciò che in genere le persone non si permettono. Mi ha scritto solo per mostrarmi di essermi amico, di volermi bene. E chiude la sua lettera, fantasticamente sgrammaticata, con:
OGNI MOMENTO LA FELICITA’ PUO’ FARTI PREDA. STA IN AGGUATO. FATTI CATTURARE SENZA REMORE.
Parole che ricordo, tutte, perché a volte la mia cronica tendenza a chiudere, a non lasciare scampo, mi fa dire che io sto meglio così, scollegata, disaffezionata, solo contenta di stare con mia figlia. A volte, per fortuna solo a volte, fatico anche a entrare dentro fino in fondo nella mia voce. So bene che la maggior parte dei miei umori merdosi cesserebbero di avere i loro momenti di gloria se riuscissi ad entrare sempre con totale convinzione nella mia voce, nel mio respiro, se riuscissi sempre a sentirmi davvero come un albero, come una montagna, a calarmici dentro, a viaggiare fino in fondo alle radici.
Sempre è impossibile. A volte si riesce, a volte no. Però basta per sapere che è possibile.
Ma anche un ritornello scalpita per essere notato: Libertà è partecipazione. Gaber. Lo canticchiavo durante la giornata, probabilmente per facile associazione.
In ogni caso sono queste le altre parole del giorno. Non è strano che compaiano. Realizzare la mia felicità è l’obiettivo che cerco di pormi, secondo la felice intuizione che è nostro dovere, più che nostro diritto, cercare di essere felici. E’ un pensiero sempre sotteso. Come sotteso è sempre il pensiero che lo accompagna: la mia felicità è il più bel dono per mia figlia.
Allora eccole le parole in fila di oggi, 28 luglio:
PARTECIPAZIONE perché solo così posso essere
LIBERA come invero sono, nonostante il dubbio che a volte assale. La consapevolezza è proprio quella di essere libera fino al midollo. Quindi, da essere libero, che fare? Da libera posso uscire allo scoperto, posso mostrarmi, rendermi visibile agli occhi della
FELICITA’ di cui di nuovo posso rendermi
PREDA senza remore. Perché se sono autenticamente libera posso cadere nella trappola della felicità senza averne paura.