Quando faccio la doccia sono solito mettere una canzone per cronometrarmi. È un’abitudine che ho preso a tredici anni, l’ultimo delle medie. Il bagno è in solaio, il piano occupato da mia madre, e uno stereo (che si trova ancora lì) faceva la guardia a questa corposa collezione di CD. Uno di quelli a cui ero più affezionato, ieri come oggi, è Una giornata uggiosa di Lucio Battisti, e mentre iniziavo a far scendere l’acqua nell’attesa si scaldasse nemmeno un buco per affittasi iniziava a farmi compagnia. E che compagnia! Niente di meglio che una doccia calda e voci antiche.
Antiche di un’epoca astratta, quel mare magnus che da Hiroshima a Berlusconi I mi ammaliava coi suoi ricordi di chi c’era stato ed era ancora con me, a parlarmi di tempi che il mistero della vita mi aveva fatto mancare per un soffio. Perché questa sensazione di essermi perso molto, forse tutto, l’ho avuta in grembo e in testa da che ho iniziato a pensare. Un pensiero indipendente dalla dottrina catastrofica che imperversa nel paese dalla fine dello scorso millennio, quanto semmai uno stupore e tremore di fronte a quella mole di Storia di dati di fatti e di persone così maestosa che nemmeno l’imperatore Meji tirato a lucido poteva sognarsi di addomesticare. Ci si accontentava di briciole, ma era più il piacere del privilegio che la coscienza dell’occasione perduta.
L’acqua scende e il disco va avanti, avanti parecchio perché le mie docce erano lunghe, meticolose e dispersive, al punto catastrofico (per la natura) di certe volte in cui finivo di asciugarmi al nastro rosa. Oggi le cose sono cambiate, ho dovuto velocizzarmi e adesso mi accontento di una canzone sola, che non vada in loop più di due volte. Proprio stasera era Ferretti a farmi compagnia, e il Curami che nelle U, A e I più alte squarciava lo scroscio e si faceva sentire appena, ululato emiliano nella notte lombarda. Perché è tardi, i vicini si svegliano e non è un pomeriggio d’estate in cui posso far trionfare il basso di Mingus col volume alla campana.