Dove ero ieri
quell’infinito
ieri che mi porta
all’origine del mondo;
in un punto inesploso
di un tempo dilatato
che è diventato niente
o tutto
Che è divenuto un
IO
Nata nel profondo sud, provengo da una famiglia dove il destino delle figlie è già confezionato dalla nascita, mentre i figli maschi possono liberamente costruire il loro futuro.
La scuola e l’istruzione sono infatti una prerogativa esclusiva dei fratelli.
Dopo le scuole elementari inizia, quindi, il mio calvario e la lotta estenuante per continuare gli studi. Ho però un’alleata: la nonna paterna, cioè la genitrice di quel padre che non vuole sentire ragione. Mia nonna (femminista, ancor prima che questo modo di essere s’imponga come nuova identità per l’emancipazione femminile) mi è accanto e muove le giuste pedine per potermi permettere di studiare. Con il suo aiuto riesco a finire il liceo scientifico, scelto comunque da mio padre, nonostante il mio desiderio di frequentare il classico. L’iscrizione all’università mi vede fare lo sciopero della fame, prima, e organizzare la mia fuga dal paese, poi. Per fortuna non c’è stato bisogno di rompere con la famiglia.
Nel 1977 mi trasferisco a Milano per studiare. Descrivere il senso di libertà che ho respirato in quegli anni è quasi impossibile: una sensazione di vertigine continua; un’ebbrezza che viene favorita dal clima di fratellanza e di impegno politico che all’epoca si viveva in questa città.
Finita l’università, decido di rimanere a Milano e inizio a lavorare e a impegnarmi nel volontariato a favore delle donne maltrattate e, più in generale, delle persone sofferenti.
Ad aprile del 1996, rimango incinta, a dispetto della diagnosi che in quel momento della mia vita non mi vuole madre, e il tutto avviene quando decido di porre fine alla mia storia d’amore, stante la distanza che mi separa dal mio compagno e l’impossibilità di trovare una residenza comune.
Rimango disorientata perché mi vedo single per tutta la vita. Mi confido con mia madre e la mia sorella preferita ed entrambe mi consigliano di tenerlo e di comunicare l’evento al padre del mio futuro bimbo. Seguo il loro consiglio e Luis rimane frastornato quanto me. In un primo tempo mi dice di disfarmene, salvo poi ripensarci. Mi tengo il bambino (l’avrei fatto in ogni caso) mentre lui decide di trasferirsi a Milano. Il tempo passa, il bambino nasce e lui non si vede. Non insisto, forse perché in cuor mio preferisco crescerlo da sola. Gli lascio, quindi, tutto il tempo. A distanza di un anno dalla nascita, mi propone di vivere all’estero, dove risiede perché lui non se la sente di vivere in Italia. Rompo definitivamente i rapporti e lo rivedo solo nel 2005, quando mio figlio esprime con forza il desiderio di conoscere quel padre lontano. Tutte le emozione vissute in quel periodo dal mio meraviglioso bambino sono raccolte in un diario che la maestra gli aveva detto di tenere per poter conservare i dettagli dell’incontro. Non i ricordi, quelli saranno scolpiti nella sua memoria per sempre.
Le difficoltà di crescere da sola mio figlio è inizialmente compensata dalla sua infinita dolcezza.
Ridurre l’orario di lavoro viene in automatico. Tutto il tempo disponibile viene dedicato alla condivisione di fiabe, prima, e ogni genere di lettura, più tardi. Ricordo il suo viso quando mi accingevo a raccontare: la bocca semi aperta nell’atto di bere le parole e, soprattutto, il brillare dei suoi occhi spalancati quando il racconto lo coinvolgeva.
E’ vero, c’era anche la fatica di alzarsi al mattino, prepararlo e portarlo al nido (e poi a scuola), anche quando ero febbricitante e avrei voluto restarmene a letto. Le rinunce di stare con le amiche, le continue visite mediche a causa delle sue allergie, le contrazioni muscolari per le troppe tensioni. Ma il suo amore e la sua intelligenza mi ripagavano di tutto. Ricordo Jacopo dire a tre anni e mezzo all’insegnante della scuola materna che le donne erano più intelligenti, e queste convocarmi perché espressioni del genere denotavano una “stranezza” in un bambino così piccolo. E’ stato facile rispondere che probabilmente mio figlio era più avanti di loro. Quante soddisfazioni! E poi…
Gli anni passano e io non riesco a trasformare la mia relazione con una persona che non è più bambino. Inizia, quindi, la ribellione verso la madre adorata che gli impedisce di crescere, relegandolo al ruolo di eterno fanciullo. Da qui i malesseri sempre più incisivi ed un percorso psicologico che coinvolge entrambi. Ad oggi ci troviamo in una fase di transizione, con la consapevolezza che tarpare le ali alla persona amata equivale a diventarne il carceriere e che solo l’individuo libero impara a tessere la tela della propria vita.