Storia di un matrimonio, o meglio “storia d’amore di un divorzio”. Così ha infatti definito il suo film il regista Noah Baumbach.
Una coppia con figlio, di quelle che nessuno si aspetterebbe che…, che nessuno neppure immaginerebbe che…, visto che sono belli, invidiati, attraenti, uniti, complici, innamorati. Perché l’amore c’è stato e c’è ancora. Si vede chiaramente. Vivono a New York e lavorano insieme, a teatro. Lui (Adam Driver) geniale regista, lei (Scarlett Johansson) carismatica attrice. Lei vuole però riprovarci con la televisione, vuole tornare per un provino a Los Angeles, sua città d’origine. Lo fa, porta con sé il figlio. E quello che avrebbe potuto essere semplicemente un intoppo, una piccola crepa, quello screzio che si sarebbe potuto recuperare, apre invece un baratro senza fondo; la crepa diventa incolmabile. A seguire un iter doloroso, aggressivo, gestito con un linguaggio avvocatesco che non corrisponde al loro essere e al loro sentire. Sono due persone consapevoli, fuori dagli schemi, che, nella totale libertà di scegliere ed esprimersi, potrebbero lottare per non rinunciare al loro amore e invece no. Ma perché? Ci si domanda. Che cosa davvero li porta lì, all’irreparabile?
Anche il film di Ingmar Bergman del 1973, Scene da un matrimonio, metteva in realtà in scena la “storia d’amore di un divorzio” descrivendo la crisi inesorabile di una coppia, in quel caso una coppia tutt’altro che libera, anzi, una coppia del tutto intrappolata dai ruoli di genere e dagli obblighi imposti dalla società di allora. I due arrivano alla rottura, ma anche qui, di fatto, si amano. Si amano, ma non reggono. La domanda, oggi come allora, è sempre la stessa: perché? Perché un matrimonio finisce?
Né Bergman né Baumbach danno risposte.
Entrambi i (bellissimi) film ci lasciano con il sapore di un’agrodolce tristezza. Perché il finale di entrambe le storie avrebbe potuto essere diverso, addirittura opposto.
Forse si potrebbe semplicemente dire che, di fatto, essere davvero liberi è un miraggio. Per uscire da una convenzione si finisce per cadere in un’altra. Non si era liberi convincendosi che il sacrificio dell’amore fosse necessario in nome dell’emancipazione (Bergman 1973) e non si è liberi oggi da emancipati (Baumbach 2019) visto che qui l’impressione è che il matrimonio deragli perché il mondo ormai ci dice che così accade a tutti i matrimoni, prima o poi. E non resta che comportarsi di conseguenza, con stanca rassegnazione. Ci si fa quindi la guerra, in fondo non si sa bene per che cosa, si soffre, ci si fa del male e poi si cerca il modo per gestire un accordo il più possibile civile, amichevole. Nel nome dei figli.
La verità dell’amore è un’altra, ma troppo spesso non ci basta. Che peccato.
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