Progetto Oltre la pandemia STORIE

Meno male che ci sono lo yoga e la vela. Monica (con Pietro)

scritto da SF storie

Meno male che ci sono lo yoga e la vela, la pandemia ha messo in evidenza questo: rispetto ad altre emergenze che avevo quando mio figlio Pietro, ora diciannovenne, era più piccolo, la dimensione più difficile vissuta in questo periodo è stata la solitudine e un grosso supporto è stato ed è ancora oggi, post pandemia, il collegamento con realtà associative sia in presenza sia online.

Sono architetta libera professionista sessantenne, single, disabile, autonoma; mi occupo di benessere ambientale, lavoro soprattutto come consulente per enti pubblici, organizzazioni private del terzo settore, aziende agricole, progetti per persone con sensibilità ecologiche e olistiche, per persone con esigenze specifiche, motorie o psicosensoriali. Sono una che ha sempre studiato e così, adesso che ho una certa età, metto insieme competenze apparentemente distanti ma in realtà tutte rivolte a esprimere un modo più armonioso di abitare questo pianeta.

Durante la pandemia mi sono ritrovata chiusa in casa ad avere modo di dedicarmi anche a cose per le quali non trovavo mai il tempo, come ad esempio lo yoga.

Faccio parte di un’associazione nazionale che ha, come tutti, iniziato a svolgere attività anche in rete; due volte alla settimana ho cominciato a frequentare un corso di yoga e una volta alla settimana un corso di meditazione. Questa continuità, questo contatto virtuale con persone che conosco personalmente, pur vedendole magari una volta all’anno, mi è stata di grande aiuto per trovare strumenti che mi permettessero di elaborare la situazione, sviluppare una migliore centratura emotiva che mi ha permesso di affrontare con relativa serenità questo periodo, oggi reso difficile dalle guerre in corso e dal senso di fragilità diffusa che ancora si avverte nell’insieme, come strascico della pandemia. Sviluppare una dimensione interiore insieme a una dimensione sociale per me è un obiettivo da perseguire. Le persone consapevoli sono persone più salde e al tempo stesso libere, evitano di cadere nelle spirali a mio avviso più preoccupanti, e ne abbiamo viste alcune in questo periodo, contrapposizioni violente prive di ragionamento.

E poi c’è la vela. Pratico vela adattata, inclusiva. Tranne che nella fase del lockdown strettissimo, essendo uno sport individuale all’aria aperta, durante il periodo pandemico abbiamo sempre potuto praticare e questa è stata una grandissima risorsa.

Nella vela trovo tante dimensioni, quella del rapporto individuale ed empatico con la natura, quella introspettiva del riconoscere le proprie emozioni senza subirle – quando ti ritrovi in mare come quest’ anno ci è capitato, con vento teso e rafficato o con il mare grosso, all’inizio viene fuori tutto, paure, insicurezze, mentre cerchi di capire come fare la regata.

Attraverso la pratica sviluppiamo capacità propriocettive, cognitive e acquisiamo competenze sociali nel continuo condividere esperienze che coinvolgono persone di tanti tipi, di tanti variegati livelli di autonomia e mobilità.

Si sviluppa nel gruppo una competenza collettiva, basata su una conoscenza reciproca, sul supporto e sulla relazione con chi non è in barca ma che ci permette di esserci, con tutti quei volontari che trasportano le barche, che le spostano, che ci aiutano in tutti i modi possibili, felici di vedere quello che può uscire fuori da questo impegno. Con gli allenatori che vedono i nostri cambiamenti di anno in anno. Per me questa è un’esperienza molto intensa, così anche per le altre persone che ci si stanno avvicinando.

Usiamo barche che non scuffiano perché hanno una deriva pesante. Sono barche inclusive per tutti, adatte per persone disabili ma anche per fare scuola di vela con bambini o anziani che hanno perso una buona mobilità.

Durante questi ultimi due anni ho lavorato in casa. Avevo adibito una stanza a studio ma, lavorando soprattutto come consulente e dovendo incontrarmi con le persone, lo studio in casa non è certo una soluzione ottimale quindi due mesi fa, con una collega che viveva la stessa situazione, abbiamo trovato uno studio insieme, a noi si è poi aggregata una terza persona, geometra, e ora anche una tirocinante. Uno studio al femminile, una coabitazione pacifica, a partita Iva individuale.

Abbassiamo le spese, condividiamo i servizi e, nel caso capitasse di poter sviluppare lavori un po’ più complessi, abbiamo la possibilità di metterci più facilmente in rete.

Un cohousing lavorativo che funziona, esattamente come potrebbe essere la casa. Come avevo sperato che potesse essere.

Io sono di fatto nomade, cambio casa – per necessità – molto spesso. Sto cambiando casa ad un ritmo di una ogni tre anni. Non ne posso più e spero che il prossimo trasloco sia l’ultimo anche se non sono sicura che possa essere così.

Per congiunture di vita privata appena prima del lockdown io e mio figlio ci eravamo trasferiti a vivere in una casa di 120 metri quadri con due bagni e tre camere, ossia in una condizione molto privilegiata dal punto di vista degli spazi. La casa è grande, in centro, e si affaccia su un giardino. Fare la spesa era semplice e io ho vissuto su un balcone per dei mesi, con le piante. Con Pietro allora diciassettenne, quindi ancora in fase acuta adolescenziale, il fatto di potersi distanziare in casa e avere una buona connessione wifi è stato fondamentale per non azzannarsi.

Abitare in quella casa ci ha permesso di affrontare la pandemia con tranquillità, è stata una grande fortuna.

La casa è in affitto e non posso permettermi di comprarla. Il mio desiderio, che a un certo punto sembrava potersi realizzare, era quindi quello di comprare con un’altra persona per avviare un discorso di cohousing, ma il progetto non è decollato. Una camera con un bagno a testa e la zona a giorno da condividere è per me una possibilità reale, una soluzione accettabile, ma la coabitazione fa paura.

Mi dovrò quindi spostare, anche perché a breve si prospetta il nuovo cambiamento importantissimo. Pietro da settembre andrà a studiare a Roma. E io pensavo di essere preparata, ma non lo sono.

Cercherò di rimanere a vivere  nel nostro paese o negli immediati dintorni. Vivo qui da alcuni anni, prima abitavo in montagna, luogo non adatto all’invecchiamento dei miei genitori e neppure compatibile con le mie esigenze di vita oggi.

Il fatto di stare qui è rassicurante per i miei genitori molto anziani che abitano nelle vicinanze ed è facilitante per me e per il mio lavoro fatto di spostamenti e di sopralluoghi.

Abito in Versilia, in un battibaleno si è sul mare o in mezzo alla campagna; è una situazione ideale che offre un bel polo di servizi e negozi.

Alcune amiche, per varie ragioni, stanno pensando più o meno di trasferirsi qui, sebbene non in cohousing. Già durante i fine settimana iniziano ad essere presenti persone vicine che prima non c’erano e per me questa novità è diventata un elemento ugualmente molto importante perché, sebbene io abbia tante relazioni col territorio e nonostante viva qui da anni, di fatto è difficile sviluppare vere e proprie amicizie, penso anche per via delle mie attitudini anticonformiste (single, olistica e disabile è una miscela un po’ complessa) e poi rimango una che “viene da fuori”, insomma una serie di caratteristiche che decisamente non facilitano la relazione sociale locale.

Pertanto, è importante fare rete, ritrovare o creare un collegamento con gli altri. Per 19 anni sono stata impegnata, oltre che in tanti progetti ed esperienze, a cercare di crescere Pietro nel migliore dei modi possibili. Pietro è la mia famiglia, la persona con cui condivido il quotidiano, il vivere sotto lo stesso tetto. Adesso lui va per la sua strada – che impegna anche me per altri versi, ovviamente, con il carico di una persona che studia fuori – e il dover ripensare la mia vita proprio in un momento in cui, a valle di una pandemia, immersi nello scossone emotivo determinato dalle guerre, mi pone in una dimensione di inaspettata e scomoda fragilità.

Una delle cose che per me risulta più difficile da accettare è la questione ancora irrisolta della casa in cui vivere, assieme all’incertezza data dal momento presente, anche sotto il profilo economico.

La sensazione di fragilità economica e sociale percepita in pandemia permane, tenendo conto che noi liberi professionisti (gli effetti dei bonus edilizi non hanno coinvolto tutto il settore) non abbiamo alcun ammortizzatore sociale. Nel caso di famiglie monogenitoriali, ad esempio, non esiste alcun ragionamento che tenga conto del grado di autonomia dei genitori, dettato dalle condizioni di salute, economiche, di gestione del tempo o di altre variabili. Non è previsto alcun sostegno per situazioni di monogenitore disabile con partita Iva. E dato che sono disabile con un reddito superiore ai 7000 euro e in regime forfettario, non ho accesso ad alcun tipo di facilitazione.

Queste mancanze almeno in parte riflettono l’eredità di un tempo in cui i liberi professionisti guadagnavano molto, oggi non è più così, ci sono profondissime differenze anche nelle stesse categorie professionali e la gran parte dei lavoratori autonomi, come me, ha un reddito basico che consente di vivere ma non di risparmiare, il che significa essere molto fragili. Una fragilità che però non viene riconosciuta (figuriamoci poi quando le fragilità si sommano – donna sola disabile). Non mi sto lagnando, sono una persona attiva. Le risorse dei singoli, di qualunque genere, devono sopperire alle carenze di un’organizzazione sociale incapace di corrispondere alla realtà. E chi non ne ha la forza? Quanti sono i pregiudizi o che idea di persone e di famiglie stanno dietro alle misure fiscali?

Anche se non sono una genitrice sola a tutti gli effetti, visto che il padre di Pietro c’è e abbiamo un rapporto molto tranquillo e di solito di cooperazione nei suoi confronti, nel quotidiano sono sola.

Lui sta a cinquanta chilometri da noi e ha sempre vissuto Pietro nei fine settimana o per le vacanze. Nel quotidiano ci sono io. Non lontano ci sono due nonni che, pur essendo colonne portanti nella nostra vita, molto presenti nella vita di Pietro bambino, ora sono fortunatamente lucidi e autonomi, ma molto anziani.

Durante la pandemia abbiamo fatto di tutto per cautelarli. Non li abbiamo visti per mesi, pur mantenendo i contatti e andando a trovarli in occasione di qualche commissione. Secondo me in quel periodo mio padre è invecchiato più velocemente.

Ho avuto paura del covid solo all’inizio, per il modo feroce in cui è cominciato il tutto. Poi nel giro di poco la mia sensazione è cambiata. Ho continuato a fare attenzione a mantenermi in condizioni di salute. La mia difesa è stata quella, sono stata attenta, ho spento definitivamente la tv e ho evitato situazioni che mi potessero mettere a rischio, ho cercato di stare all’aperto, di prendere il sole, di mangiare decentemente, di fare movimento, di fare tutto quello che mi poteva aiutare a stare meglio.

Ho subito le limitazioni, gli obblighi. Penso che si sarebbe potuto fare altro. Al di là dei primi sei mesi, c’è stato un anno di tempo in cui, ad esempio, si sarebbe potuto attrezzare le scuole, spendere soldi in modo più utile rispetto a come sono stati impiegati, trovare soluzioni che permettessero di mantenere livelli di socialità che invece non sono stati mantenuti spostando i livelli di responsabilità dalla dimensione sociale a quella personale. Penso che bisognasse trovare altre strade che invece non solo non sono state percorse, ma neppure provate.

Come molto spesso è successo ai giovani, anche mio figlio ha sofferto il distanziamento, ha vissuto la scuola in DAD come una privazione, ha vissuto tutto il periodo maturando una rabbia che ha poi impiegato molto tempo a scolmare.

Era già in una fase di eccessi della sua vita e questa faccenda l’ha ulteriormente caricato.

Per fortuna ha idee molto chiare su quello che vuole fare da grande. Si autodetermina molto. Mi ha stupita nella sua capacità di non perdere il filo nonostante tutto. Penso che questo sia stato anche il suo aspetto compensativo della grande incertezza che tutti quanti viviamo, incertezza che lui si è medicata individuando in totale autonomia un percorso di vita, cercando di star dentro la dimensione frustrante della pandemia senza subirla, di trovarci il bandolo. Sta dando segni di grande maturità e talento e ne sono felice.

Alla fine di tutta questa rassegna di cose che ho scritto e che corrispondono effettivamente ai vissuti del periodo, ce n’è una che si sta lentamente facendo strada dentro di me.

Nonostante tutto, proprio in periodi complessi come questo, sia sotto il profilo personale che collettivo, si sta addensando un seme che è fatto di fiducia, di tenacia, di costanza nel mantenersi saldi alla vita in senso lato e al riallineare le priorità, ridare spazio ai valori e riflettere ancora di fronte alle forti contraddizioni in cui siamo scivolati nel mondo di oggi.

Come ricordava Tiziano Terzani che ho riascoltato nei giorni scorsi, viviamo in una realtà duale e di fronte a una sofferenza come quella provata in questo periodo non può che generarsi anche il desiderio radicato di un modo più armonioso di vivere la famiglia umana e le azioni conseguenti per affermarlo.

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SF storie

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