Queste sono le mie riflessioni sull’amore materno.
Quando ho deciso di tenere il mio bambino, cosciente dell’assenza del padre, avevo 38 anni.
Sentivo di appartenere al mondo ed ero piena di vita, pur essendo consapevole delle difficoltà che avrei incontrato nel mettere al mondo un figlio che avrebbe avuto un solo genitore.
Sicuramente all’epoca non potevo prevedere che un rapporto idilliaco potesse trasformarsi in un incubo.
Ma andiamo per ordine: La nascita del mio bambino ha rappresentato un evento straordinario. Penso che l’infanzia non si sia discostata molto da quella dei suoi coetanei, anche se da sempre ha mostrato una maturità e sensibilità non comune a quella età. Era un bimbo molto recettivo ed era una gioia ascoltarlo. A quattro anni sapeva già leggere e alla terza elementare scriveva già delle bellissime poesie. La sua infanzia è stata costellata da premi e successi. Fino ai 14/15 anni ha condiviso il mondo degli adulti: teatro, cinema mostre, ecc., mentre i compagni di scuola già iniziavano a percepirlo “diverso”.
Una simbiosi perfetta che mi rendeva felice e che si è tradotta, successivamente, in una ribellione con modalità fuori dai soliti schemi e difficili da comprendere.
E’ stato necessario un percorso psicologico (che dura ormai da tre anni) per potermi riconciliare con questo “alieno” che circola per casa. In questi anni però ho avuto modo di riflettere come il troppo amare possa essere deleterio allo stesso modo che l’assenza d’amore.
Ci sono vari modi di amare: quello totalizzante, per cui ci si immola e ci si sacrifica per il proprio bambino, senza che qualcosa o qualcuno possa intromettersi nella relazione; o quello che favorisce la giusta distanza dall’ oggetto d’amore, tanto da consentire al proprio figlio lo sviluppo della propria personalità in modo armonico.
Sembra facile espresso su carta e in questi termini, ma quando si è invischiati in una relazione unica senza un terzo (ad esempio il padre) che possa fare da tramite tra madre e figlio, il rischio è che la prima si annulli e non concede spazi ad altri che non sia il suo bambino.
Mi capita di volgermi indietro e vedere, con la lente di ingrandimento che il trascorrere del tempo di permette di utilizzare, quanti errori si possono fare per il troppo amore. Mi viene in mente il libro “Le mani della madre” in cui l’autore sottolinea come l’amore materno non sia senza ambivalenze. Generare, dice Recalcati, non esclude fantasmi di morte e di appropriazione, cannibalismo e narcisismo.
Se è vero, quindi, che le cure materne resistono all’incuria del nostro tempo e che l’eredità materna non è quello della legge, ma quella del sentimento della vita, è altrettanto vero che il suo dono può essere un’arma a doppio taglio.
La mia esperienza di madre mi ha insegnato che non si può prescindere dagli altri. Quando si fanno delle scelte difficili non bisogna rimanere soli, ma creare una rete di solidarietà che possa scongiurare quel rapporto simbiotico tanto difficile da superare. Perché amare significa godere del proprio tempo e del proprio spazio, senza che ciò venga percepito come sintomo di egoismo; significa mantenere un sano rapporto col mondo dentro il quale c’è anche il proprio figlio.