Padri e figlie è un film sulla perdita e sulla paura. Sulla perdita traumatica degli affetti più cari che porta quasi inevitabilmente a proteggersi tanto dal non riuscire più a stringere altre relazioni affettive. Per paura che di nuovo capiti, che di nuovo le persone amate spariscano. Per paura di perdere ancora. Il film ci vuole dire che ciò che più conta nella vita non solo è amare ma è soprattutto “lasciarsi amare”, concedere alle persone di entrare nella nostra sfera relazionale autentica. Il film ci vuole dire questo, ma.
Il ma riguarda le scelte di sceneggiatura.
A partire dal titolo. A mio avviso meglio sarebbe stato intitolare il film “padre e figlia” visto che il racconto è incentrato su di un’unica storia dove gli elementi sono assolutamente peculiari e atipici.
Ma questo tutto sommato è secondario. Problema primario è proprio il testo in sé.
Un esempio: il momento in cui viene verbalizzato quello che vorrebbe essere il portato profondo del film. Il cosiddetto “messaggio” viene affidato al dialogo che c’è fra la figlia protagonista, ormai adulta, e una bambina che sta a sua volta vivendo il trauma della perdita.
La figlia adulta le dice, in sostanza: non devi mollare mai, qualunque cosa ti capiti.
Ma come? Dopo più di un’ora di film in cui il punto focale è vicino a questo, ma non è questo, lei avrebbe giustamente dovuto dire altro! Avrebbe dovuto dire: lasciati aiutare, lasciati volere bene. Tieni sempre aperto almeno uno spiraglio perché qualcuno possa raggiungere il tuo cuore, non rinunciare ad aver fiducia…
Invece no. C’è piuttosto un evidente scollamento fra quello che si vede e quello che si sente (o si legge, nel caso dei sottotitoli) La sensazione è che Muccino e gli attori abbiano preso in mano la situazione e siano andati ben oltre il testo, che è rimasto indietro, tanto da risultare una gabbia da cui loro continuamente cercano di scappare nel pregevole tentativo di nobilitarlo.
Gabriele Muccino è molto bravo a gestire il registro intimista, è nel suo, dà il suo meglio. Da dei grandissimi attori sa ottenere e valorizzare il massimo della loro espressività.
Gabriele Muccino è molto bravo; negli Stati Uniti l’hanno capito e lo fanno lavorare. Però i copioni li fanno scrivere ad altri. Dei film americani lui firma solo la regia.
In questo caso si sente. Troppo. Il divario fra raffinatezza, qualità attoriale-registica e testo pronunciato è evidente.
Risultato: nonostante gli attori e nonostante Muccino, il film alla fine risulta più banale di quanto potrebbe essere.
Insomma: regia 9, sceneggiatura 4.
Peccato. Peccato anche perché da questo film passa forte e chiaro un altro messaggio non esplicitato, non verbalizzato, importante. Importante per chi vive dentro una smallfamily e importante soprattutto per chi non. Per tutti quelli che ancora non hanno capito intimamente come questo argomento sia nodale, sia alla base dei buoni rapporti fra gli esseri umani. Per chi non ha ancora capito che per non avere pregiudizi non serve soltanto dire di non averli, ma si debba vivere di conseguenza, si debba “agire” la mancanza di pregiudizio. I figli possono essere felici e crescere nell’amore sia che vivano con due sia che vivano con un genitore. Possono essere felici o infelici con un genitore solo esattamente come lo sarebbero in una famiglia con presenti due genitori. Il due non è garanzia di nulla, non è garanzia di maggiore serenità, di maggiore armonia, di maggiore complicità, di maggiore tenerezza. L’uno può bastare. E può bastare anche al maschile, non solo al femminile. Non sono le mamme ad avere la prerogativa di genitore complice-solidale-affettuoso.
Ecco, in questo senso, sì, vale la pena di guardare questo film.
Per questo e per la regia di Muccino.
Al drammaturgo Brad Desch, alla sua prima sceneggiatura, consigliamo, decisamente, di lasciar perdere il cinema sperando che in teatro sappia fare di meglio.