La pre-adolescenza è il modo comune per definire chi non è più bambino e non ancora adolescente. E’ quell’età indefinita che si colloca attorno al triennio delle medie: 10-13 anni (includo i dieci anni per quelli che iniziano la scuola un anno prima, e sono tanti). E’ un’età senza nome, senza contorni netti, senza arte né parte se non fosse per quel suffisso, “pre” , che gli esperti antepongono spesso, oggi, alla parola “adolescenza”: pre-adolescenza, appunto, una locuzione che annuncia, talvolta con toni minacciosi, gli imminenti capovolgimenti fisici e caratteriali che premono alle porte. In italiano c’è, invero, una parolina caduta in disuso ma capace di regalare a questa età la sua più intima sfumatura semantica: è “ragazzine/i”, ovvero non più bambini e non ancora ragazzi. Una parola che, se usata con rispetto e delicatezza, può orientare anche i genitori nell’incontrare i propri figli a questo giro di boa. Incontrarli nel senso di “vederli”, “intuirli” e “accompagnarli” gentilmente in una fase particolarissima dello sviluppo. Chi sono i dieci-undici-dodici-tredicenni? Come custodire questa soglia tra l’infanzia e l’adolescenza senza continuare a trattarli come bambini piccoli e senza avanzare pretese irragionevoli come se fossero ricercatori universitari o maturi care givers familiari? E cosa attraversano, in particolare, le ragazzine/i di questa età quando sono cresciuti con un genitore solo?
Propongo alle mamme e ai papà in smallfamilies di adottare uno sguardo ampio, come se perlustrassimo questa fase della vita dei figli da un elicottero e potessimo includere, nella nostra visione, sia gli aspetti più prossimi della relazione familiare sia il più vasto paesaggio sociale e culturale nel quale i nostri figli stanno crescendo.
Prima media: un brusco arruolamento
Che l’età dei “10/13” sia, almeno nel nostro paese, una fase dello sviluppo tradizionalmente svista nella sua peculiare complessità, lo possiamo dedurre dalla modalità spartana e inspiegabilmente brusca con cui viene gestito, a livello di atmosfere e di programmi scolastici, il passaggio dal quinto anno di primaria al primo delle medie. Fatte salve le prodezze relazionali degli insegnanti più sensibili oltre che culturalmente competenti , mi sembra che un “dolcetto-scherzetto” più insidioso del triennio delle medie gli adulti non potevano proprio escogitarlo per segnare la fine dell’infanzia. In prima media sembra che tutti gli adulti si siano messi d’accordo almeno su una cosa: non c’è più il tempo. Da un giorno all’altro l’inestimabile temporalità della “durata”, propria dell’infanzia e del gioco, muta segno: diviene segmento cronologico delle performance scolastiche e sportive da implementare incessantemente. Cambiano anche i registri affettivi: la dolce “maestra”, fino a ieri un nome proprio che il bambino era incoraggiato a concepire come un “tu”, trasfigura nelle molte facce dei nuovi “Prof” cui corrisponderà un cognome e a cui si darà del “lei”. Nuova scuola, magari nuova zona o comunque nuovo plesso, edificio, piano; nuovi banchi, nuovi orari, nuovi volti tra i compagni, nuovi criteri di valutazione. E tanta fretta (ma possiamo dire: tanta ansia), da parte degli adulti, affinchè gli ex-bambini si ingessino nelle nuove posture con navigata prontezza e composta diligenza. Si potrebbe, invece, abbracciare con uno sguardo più ampio la delicatezza di questa fase della vita. Il che non significa indulgenza o assenza di regole, ma saggezza pedagogica: sdrammatizzando le pressioni, le criticità, le paure. Incoraggiando e dando tempo alla soggettività di ognuno di emergere nello stile, nel ritmo e nelle forme più congeniali.
Oltre gli spauracchi dell’allarme mediatico e socio-culturale
Ragazzine e ragazzini di questa età, d’altra parte, sembrano non esistere nell’attualità storica se non come oggetti di indagine sociologica, merceologica, pubblicitaria: l’offerta mirata di gadget, accessori, marchi di abbigliamento, giochi tecnologici, cellulari, alimenti e dolciumi mostra di conoscere molto a fondo il suo target di giovanissimi. Ma anche la medicina e la farmaceutica, con l’eco mediatica che se ne fa promotrice, sembrano molto impegnate attorno allo studio di questa fascia di età: leggiamo sovente, o vediamo in tv, le discussioni relative a vari fenomeni di disagio psico-sociale giovanile la cui insorgenza viene ricondotta spesso, e con dovizia di dati statistici, alla “pre-adolescenza” : il bullismo, l’anoressia, la bulimia, il self-cutting, la dipendenza da Internet… Fenomeni reali e diffusi, purtroppo, ma non oggettivabili perché sempre legati a dinamiche complesse in cui sono coinvolte molte variabili anche familiari e soggettive. Sarebbe importante, insomma, evitare che un certo tipo di informazione allarmista si imponesse nella mente dei genitori al di là della loro percezione diretta e quotidiana dei figli ed evitare dunque che innescasse fantasmi di disfunzionalità anche laddove non ci sono. E dove, invece, pulsa una vita in formazione cioè legittimamente incompleta e incerta. E’ importante, perciò, coltivare un ascolto personalizzato, lieve e fiducioso dei silenzi, dei gesti e dei trasalimenti del cuore dei figli di questa età. Prima di lanciare allarmi deprimenti (“Stai partendo con il piede sbagliato”, “Non sai difenderti dai prepotenti”, “Se continui a mangiare schifezze ti ammalerai”) occorrerà filtrare i propri giudizi e sospetti e rilanciare la fiducia (“L’inizio è sempre difficile ma ce la farai”, “So che sei forte, puoi reagire e comunque conta sul mio aiuto”, “Cuciniamoci qualcosa di buono insieme!”).
La potenza spirituale dei “ragazzini a geometria variabile”
Ma cosa pensano i ragazzini tra i 10 e i 13 anni? Quante cose hanno già capito della vita e degli adulti? E quali difficoltà – ma anche vantaggi – incontrano, in questo preciso arco temporale, se sono cresciuti con un genitore solo? Premettendo che ogni caso è unico e singolarissimo potremmo cominciare col dire che i bambini di questa età sono generalmente molto più consapevoli di quel che i genitori sono disposti ad ammettere. Ci hanno già ampiamente sgamati, infatti, nei nostri difetti e nel nostro vacillare! Forse “ci proteggono” da molti anni. Forse, e soprattutto se vivono con un genitore solo, hanno un’idea precisa della sua stanchezza e vorrebbero confortarlo. In molti casi hanno smesso di sperare in una ricomposizione magica della famiglia divisa: quel posto a tavola resterà vuoto. E anzi può affacciarsi una certa rabbia, rispetto a tale disillusione; rabbia che riverseranno, in forme più o meno velate, sulla persona di cui più si fidano al mondo, e cioè il genitore che “c’è”. Il quale subirà, in questa fase, anche un “declassamento” fisiologico: non sarà più l’angelo – o l’eroe – idealizzato della prima infanzia. Ma una persona adulta tanto unica e adorata quanto fastidiosa, talvolta persino imbarazzante da mostrare agli amici: con quella faccia, quelle scarpe, quell’automobile! Non sono forme di ingratitudine o cinismo, ma segnali che tutto procede bene: la separazione è sana e presenta il suo conto. I ragazzini e le ragazzine di questa età, infine, dispongono di un pensiero principiante che sarebbe delittuoso svalutare o ridicolizzare. Il pensiero principiante, infatti, ovvero non scaltro, non avvezzo al pre-giudizio, ma avventuroso e pieno di interrogativi, è il pensiero sorgivo della filosofia e della poesia. I figli di genitori soli, in particolare, sembrano sviluppare più arditamente questa intelligenza sensibile ed estetica perché abituati, sin da piccoli, a gestire la complessità di situazioni diverse, sfumate, non sature di perbenismi e ruoli convenzionali.
Un genitore solo…e quasi perfetto!
Quando i bambini lasciano quella dimensione paffuta e completamente disarmata della prima infanzia la madre sola, o il padre solo, tirano un sospiro di sollievo. Fin qui ce l’abbiamo fatta, si dicono. E hanno ragione. Si iniziano infatti a scorgere impercettibilmente, nei gesti e nelle parole di questi ragazzini, gli uomini e le donne di domani. Tuttavia sarebbe imprudente pensare che l’infanzia si sia chiusa con una promozione in prima media. L’andirivieni tra la regressione verso un passato fusionale e lo scalpitìo verso il proprio futuro soggettivo si manifesta ora e durerà a lungo. Questo processo contraddittorio è – per ogni genitore – faticosissimo da accompagnare. E tanto più per un genitore che conduce da solo la famiglia. Occorre essere preparati a non prendersela per i bronci, i silenzi e le improvvise e tenaci obiezioni. A continuare a provvedere alla protezione e all’atmosfera accogliente e calda della casa e dei pasti. A mantenere, per quanto possibile, i rituali con i quali si sono finora celebrati i compleanni e le feste “comandate”. Saranno loro a chiedere le variazioni che sentono irrinunciabili e occorrerà cercare di accontentarli. E’ questa pure l’età, previa attenta e ponderata riflessione, in cui il genitore solo può spiegare meglio, ovvero in una forma più verosimile e realistica, eventuali storie della famiglia che finora ha preferito edulcorare o tacere o raccontare parzialmente. Mantenere segreti , omettere o alterare la storia familiare è un antico escamotage che si tramanda di generazione in generazione ma che produce più lacune affettive, confusione cognitiva e fantasmi che serenità e benessere. Certo che non si deve scaricare brutalmente o subdolamente su un dodicenne le proprie pene, rabbie e risentimenti familiari. Ma gli si può conferire piena dignità soggettiva e dunque renderlo edotto su come sono andate alcune cose, fondando il proprio racconto su uno stato d’animo autenticamente sereno e pacificato. Se non si è pronti a questo stile discorsivo e relazionale, si può rimandare e impegnarsi dentro di sé, come genitori, a fare pace con la propria storia. E’ un grande dono per ragazzine e ragazzini. E’ l’esame di terza media che tutti i genitori, soli e non soli, devono sostenere per la seconda volta.