…fino a quando sarò solamente un punto lontano”, era il ritornello di una canzone in auge qualche anno fa, ma il cartello “Fuori Servizio” affisso sulla porta dell’ascensore, annunciava una salita a me familiare.
Otto piani a piedi non sono poi una tragedia, e io ne so qualcosa poiché circa una dozzina di anni prima, quei medesimi gradini, li risalivo e scendevo, per un’ora di fila, tutti i giorni alle sei del mattino.
Era la mia “Via Crucis” quotidiana, che percorrevo prima che la “truppa” si svegliasse a reclamare la colazione pronta.
A quel tempo vivevo ancora con i ragazzi e la mia ex, ero convinto che l’agognare ardentemente una cosa, e adoperarsi per ottenerla, non fosse sufficiente per conseguirla, soprattutto se la risposta ultima dipendeva da terzi; andava, pertanto, associato al desiderio anche una forma di “sacrificio fisico”.
Qualcosa, insomma, che liberasse energia positiva canalizzandola verso il vero obiettivo.
Lo so, mi starete prendendo per uno svitato, ma nessuno è perfetto!
Di conseguenza, per moltissimi mesi, e sempre a quell’ora proibitiva, mi sono ritrovato a scendere e risalire le scale, ininterrottamente, ripetendo mentalmente ciò che volevo mi accadesse nell’ambito professionale.
Era un mantra sui “generis”, molto alienante e assai faticoso.
Altro che “tapis roulant” con schermo video davanti per alleviare la fatica, come si trova nelle palestre, qui si sudava in compagnia solo di pensieri silenziosi!
Se abbia funzionato non lo so, ma due primi premi assegnatimi per il filmato che avevo realizzato, troneggiano ancora adesso nella libreria dei ragazzi.
Loro hanno sempre sostenuto che fosse esclusivamente merito della mia capacità professionale e non del quotidiano esercizio, massacrante, che aveva il solo pregio di farmi perdere peso, ridicolizzando così le mie speranze di aver trovato una soluzione taumaturgica ai problemi di occupazione.
In effetti, mi ero “asciugato” parecchio, a conferma di quello che un noto contemporaneo hollywoodiano, Robin Williams, aveva dichiarato in un’intervista: “Non si vola con la pancia piena…”.
E io, quando rientravo in casa dopo un’ora di saliscendi, madido di sudore e con gli occhi spiritati dall’energia che mi pervadeva, avrei quasi potuto spiccare il volo, tanto mi sentivo “potente”.
Più opportunamente, però, m’infilavo in bagno prima che qualcuno potesse vedermi in quella condizione: ero la rappresentazione fisica di “l’omo è ‘na bestia”.
Il percorrere le rampe, adesso, mi riporta con la mente a quel periodo, quando il frequentarle era un’abitudine del mattino presto; senza l’ansia di essere interrotto dallo squillo del cellulare, o dall’inutile chiacchiericcio di una persona o dalle pessime notizie del telegiornale, i pensieri, che fino a quel momento faticavano a trovare la giusta collocazione, divenivano lineari e tutto appariva comprensibile.
Mi riusciva agevole pervenire a una sorta di unanimità nel ragionare, anche perché non c’era nessuno a contraddirmi.
Insomma, mi piaceva vincere facile!
Ricorreva sin d’allora, come avviene adesso, una riflessione in merito al tipo di vita cui le circostanze c’inducono.
La nostra giornata è scandita da improrogabili impegni cui faremmo volentieri a meno, da orari poco flessibili che non tengono conto dei nostri ritmi, i miei poi …e da certe incomprensioni col mondo intero che generano malumori latenti, pronti a esplodere appena qualcosa non s’incastra nel modo cui avevamo programmato.
Altro che il logorio della vita moderna, come avvertiva Ernesto Calindri, in una meravigliosa pubblicità d’epoca in cui beveva, serafico, un amaro in mezzo al traffico cittadino. Il nervosismo è, oggigiorno, la condizione abituale.
Molte cose ci disturbano e l’insoddisfazione cresce al pari dell’intolleranza verso tutto ciò che riteniamo, a torto o a ragione, essere la causa della nostra infelicità nella vita professionale, sociale, ma anche affettiva.
Hai detto cotiche!
Non sopportiamo l’ansia contagiosa del collega di turno, o l’amico perennemente lamentoso o il partner poco attento alle nostre esigenze.
Paiono tutti scarsamente sensibili agli altrui problemi oppure troppo “coinvolti” nei propri per accorgersene.
E davanti a questa indifferenza, pian piano, iniziamo a boicottare il primo, a evitare il secondo e, nei confronti del terzo, a guardarci intorno.
Il malessere non è generato solo da fattori esterni, ma anche dal senso di frustrazione per il tipo di vita frenetica e superficiale che conduciamo.
Vorremmo avere più tempo per noi stessi e per approfondire le cose che c’interessano veramente, ma sono privilegi per pochi; esattamente come il disporre, ogni giorno, di un’ora e mezza necessaria per leggere tutto un giornale.
I libri poi, quando non crolliamo stravolti la sera sul divano, si trascinano, letti a metà, per interi mesi.
I film in casa li vediamo con un occhio aperto e l’altro chiuso dalla stanchezza cronica.
Lamentiamo la mancanza di adeguate ore di sonno, il grande assente, poiché se non vogliamo vivere da abbruttiti e asociali, per forza di cosa dobbiamo rinunciare a qualche ora della notte.
Le cene con gli amici, le uscite serali o qualche evento mondano o culturale, sono lussi che si portano dietro, il giorno dopo, il senso di colpa per la sonnolenza che si accumula e che rende il nostro umore poco idilliaco.
Ma era questo il tipo di vita che avevamo immaginato da giovani?
Probabilmente no.
Da single o in coppia, si riusciva a trovare una mediazione tra le nostre esigenze e i doveri necessari, ma una volta nati i figli, la musica è cambiata.
Da edonisti moderati, siamo diventati domestici in servizio permanente dei nostri “eredi”.
Le priorità sono cambiate e con esse il tempo a disposizione per le nostre cose si è ridotto, assottigliato fino quasi annullarsi del tutto, e questo non ha migliorato lo stato d’animo.
Ed è in quel momento che è avvenuto lo scarto, il bivio tra ciò che avremmo desiderato fare e quello che, invece, era solo possibile a causa dei nuovi impegni familiari che fagocitavano tutta la nostra energia.
In questa nuova condizione totalizzante, complice anche una stanchezza mentale, abbiamo iniziato a disinteressarci riguardo a molte cose, o, nella migliore delle ipotesi, a delegare altri a scegliere in nostra vece.
Atteggiamento che si è poi ripetuto in tante circostanze, dal privato al pubblico, poiché anche il solo pensare di approfondire certi argomenti costava fatica, ed era più comodo, quindi, lasciare a terzi il compito di farlo per noi.
Ripetevamo che era solo momentaneo il nostro abdicare, e che avremmo recuperato il terreno perduto tenendoci aggiornati attraverso i “media”.
Una pia illusione!
Certe situazioni richiedono un’analisi ragionata e non una reazione istintiva e di pancia, e la profondità del “pensiero lungo” era scalzata da slogan gridati o della lunghezza di un twitter.
E nella confusione di ragionamenti superficiali, ma sempre esposti con aggressività, abbiamo sentito ripetere che non esistevano più la destra e la sinistra, né le classi sociali, né un futuro per i nostri figli, né un rimedio alla crisi economica o all’inquinamento del pianeta, e via dicendo…
Insomma, una fiera di luoghi comuni; e io, per le banalità che scrivo, me ne intendo!
Tra un populismo reale o di retorica, che domina la scena da parecchi anni, è andato consolidandosi il “pensiero unico” che, a fronte di una adesione occasionale, la crocetta sulla scheda elettorale, si prende l’onere di indicarci chi votare, come vivere, chi amare o quale famiglia avere.
Poche persone, e raramente espressione diretta della volontà popolare, si arrogano il diritto di decidere della nostra vita, anche quella più intima; e noi, indaffarati dietro le nostre cose, e mezzi disorientati, lasciamo fare, convinti che sulle questioni importanti saremmo più intransigenti.
Gli avvenimenti internazionali, purtroppo mai piacevoli, c’impauriscono a tal punto che, in nome di una presunta sicurezza, disconosciamo i nostri propositi per rilasciare deleghe in bianco agli occasionali salvatori della patria.
Riteniamo sia meglio rinchiudersi nel proprio bozzo dei problemi familiari e sperare che la tempesta perfetta che si addensa periodicamente sopra le nostre teste, transiti velocemente anche questa volta.
Come si sia giunti a questo punto non lo so; ma la sfiducia nelle istituzioni è palese, proprio come la fatica dell’arrampicarmi su per le odierne scale.
E così, un gradino dopo l’altro, mi aggrappo alle divagazioni per distrarmi dalla proibitiva ascensione, rammentando situazioni che avevo dimenticato.
Per motivi discrezionali non confiderò tutti segreti che mi si rivelavano, in quegli anni, nella silenziosa scalata mattutina quando transitavo a determinati piani.
Ricordo molto bene, però, l’uscire dalla porta di servizio di un certo appartamento, e alla chetichella, di un individuo che sapevo non risiedere nello stabile.
Non era un Volontario della Croce Rossa, chiamato per assistenza disabili o anziani, semmai un missionario di un’opera caritatevole come quella di offrire conforto notturno alla signora il cui marito era periodicamente assente per motivi di lavoro.
Conosco la solitudine di certe notti e provo simpatia per chi s’ingegna ad eluderla, al di là di certi pettegolezzi che, inevitabilmente, erano sussurrati tra i condomini.
Io ritengo che nessuno abbia il diritto di giudicare gli altri riguardo alle proprie condotte private, se queste, ovviamente, non arrecano danno; ma è fiato sprecato, perché alla maggior parte delle persone piace emettere sentenze senza neppure aver indossato i panni degli altri.
E la mia non è un’incitazione al travestimento!
Ad ogni modo, man mano che salivo per raggiungere l’appartamento dove avevo vissuto per venti anni e dove tuttora risiedono i miei figli e il nostro anziano cane, mi domandavo, arrancando e con il fiatone, quale soluzione avessero trovato i ragazzi per le sue uscite, avendo ben presente che, per i problemi alle articolazioni, il nostro quadrupede non era più in grado di arrampicarsi sulle scale.
Un golden retriever di oltre trenta chili, non è propriamente facile da portarsi in braccio per cinque piani.
La domanda era squisitamente retorica.
“Papo, ti dispiace ospitare il cane per qualche giorno a casa dei nonni, dato che lì l’ascensore funziona…?”.
Il concetto del tempo che scorre è sempre stato fonte di discussione tra loro e il sottoscritto.
Continuo a ritenere che un mese non sia la giusta definizione di…qualche giorno!
Tanto è stato, infatti, il periodo dell’ascensore in riparazione.
E pensare che, secondo alcuni, ci fu in passato chi, in sei giorni, riuscì in un’impresa biblica, e il settimo si riposò.
Ma evidentemente non apparteneva all’azienda appaltatrice della manutenzione montacarichi.
Ad ogni modo, il presentarmi con il cane a casa di anziani genitori, oltretutto, allergici al pelo di animali domestici, non è stato un gesto amichevole.
Ricordate, siamo al servizio permanente dei figli, a prescindere dall’età; e i nostri genitori non sono da meno.
Sottolineare le difficoltà di questo impegno, non previsto, che sovente mi vedeva fare anche sei volte, ribadisco sei volte, nell’arco della stessa giornata un percorso che si snoda da un’estremità all’altra della città, e anche oltre perché i nonni vivono fuori della metropoli, per portare giù il cane alle canoniche tre uscite quotidiane, ebbene, sarebbe superfluo farlo notare.
Ma di necessità si fa virtù, anche se forse sarebbe più adatto definirla schiavitù!
E così mi son trovato in mano, quasi senza rendermene conto, guinzaglio, museruola di ordinanza, spazzola peli, medicine per i suoi malanni e sacchetti per le deiezioni, e un “Arrivederci a fra qualche giorno Nilo e grazie papo…” che riecheggiava ancora nell’aria.
Il nostro cane, era ovviamente strafelice di tornare a essere nuovamente il mio gregario e io, nonostante le perplessità, abbozzavo.
Meno contenta si è rivelata la mia fidanzata, poiché vedeva decurtare il tempo delle nostre frequentazioni, a causa di un altro essere alto meno di un metro, peloso e scodinzolante.
Forse era anche gelosa di aver perduto il primato di essere l’unica che, incontrandomi, m’incocciava felice; adesso c’era qualcun altro che strusciava il muso contro le mie gambe e aspettava una carezza sul capo e un complimento.
Devo ricordarmi di non farlo con lei, ma, soprattutto, di non metterle il guinzaglio.
Insomma, tornavo girovago mattiniero pomeridiano e notturno in una zona a me sconosciuta poiché non vi avevo mai abitato; ma l’uomo, oltre essere poeta e navigatore, é anche esploratore!
Il Parco Nord, luogo misterioso di cui avevo sentito narrare, si apriva alle passeggiate con Nilo sin delle sei del mattino, lo so, è un orario antelucano, e mi svelava, tra boschetti e stagni, percorsi per maratoneti.
A quell’ora difficilmente se ne trovava uno; evidentemente la faticaccia della corsa richiede un orario più consono per un pubblico che possa apprezzare il ritmo o il fisico.
Ovviamente scherzo!
La mia ammirazione nei confronti di coloro che, indifferenti alle condizioni climatiche, gareggiano, indefessi, contro se stessi, è sincera.
Ricordo che a quell’ora incontravo solo anatre, gabbiani, cornacchie e… pappagalliii?!
Strano, ma vero.
Qualche esemplare o era stato abbandonato o l’avevano lasciato fuggire e, non so come, si era riprodotto, creando una colonia di pappagalli verdi, apparentemente ben ambientata nel Parco.
Pappagalli esotici nei parchi milanesi, ma ci rendiamo conto, di questo passo, cosa troveremo più avanti: zanzare tigri?!
Se non li avessi veduti con i miei occhi, difficilmente ci avrei creduto.
E non era l’unica cosa strana cui assistevo.
Una mattina, infatti, ho veduto una scena che fatico ancora adesso ad accettare.
Sulla sponda del Seveso, opposta a quella cui transitavo, vi è un deposito della nettezza urbana cui fanno riferimento gli automezzi del comune di Bresso; ebbene, alle sette di un mercoledì, un incaricato della raccolta rifiuti, mentre depositava alcuni involucri in certi contenitori, ne gettava altri direttamente nel fiume. Cosaaa?!
Non ho avuto la prontezza di riprendere la scena con cellulare perché la sorpresa in primis e il telefonino riposto nella tasca interna del giubbotto poi, hanno intralciato il mio proposito.
Dal modo naturale con cui l’incaricato ha agito, ho dedotto che non era la prima volta che lo faceva e, presumibilmente, neppure l’ultima.
E meno male che i netturbini, perché di loro stiamo parlando, sono definiti operatori ecologici!
Alla faccia della coerenza!
Dato l’episodio, ora mi aggiravo guardingo, e altre “anomalie”, in prossimità degli alberi o dei cespugli più folti, attiravano la mia attenzione.
Nella pausa pranzo e all’imbrunire, alcuni individui sostavano in determinati posti con fare assai ambiguo; infatti, come fauni moderni, “occhieggiavano” chiunque fosse di genere maschile e che si trovasse a transitare lì vicino.
Altro che voltarsi a guardare il lato b delle donne; questa è la conferma che non ci sono più i “pappagalli” di una volta!
La bramosia di quegli sguardi mi aveva fatto ipotizzare il tipo d’interesse antropologico che li motivava; e la conferma è avvenuta un mezzogiorno quando dovetti richiamare Nilo che si era infilato tra quei cespugli.
“Ehi bello, vuoi compagnia…?” fu la frase che sentii rivolgere da uno degli astanti, e nel dubbio se fosse riferita al cane o a me, scossi la testa dichiarando: “Grazie, non siamo in cerca di funghi!”.
Adesso sapevo che nel parco nidificavano diverse tipologie di “pennuti”.
Ad ogni modo, per quella forma di simpatia manifestata al tempo delle scalate mattutine, nei confronti di chi cercava conforto alla solitudine notturna, mi astengo dall’esprimere un giudizio riguardo a chi cerca “nidi per volatili” tra i cespugli.
Vivi e lascia vivere è il mio imperativo.
Non è sempre facile, in modo particolare nel nostro Paese poiché per cultura e tradizione siamo alquanto arretrati riguardo a certe problematiche inerenti alla vita privata delle persone, e sull’argomento c’è una immensa pubblicazione letteraria e filmica a dimostrarlo, e l’ultimo in ordine cronologico é il bellissimo film “Perfetti sconosciuti”; anzi, siamo in mezzo al guado se ci rapportiamo ad altri Paesi europei, ma Nilo è di una razza canina amante dell’acqua, e sentir parlare di guado lo rianima e per dimostrarmelo, si tuffa a nuotare in un laghetto artificiale.
In altre occasioni, negli anni passati, non avrei avuto alcun problema a lasciargli fare il bagno, ma ora, in quelle condizioni, si regge a malapena in piedi, sono preoccupato.
E se non dovesse farcela, mica mi toccherà immergermi per recuperarlo?
Nell’aria fresca del mattino presto, non c’è nessuno che potrebbe darmi una mano, neppure “quelli là” vicino agli alberi, e bagnato fradicio non avrei neanche il conforto di un surrogato di calore!
Insomma, non è vita questa!
La fortuna è dalla mia parte e dopo una breve nuotata, pur con non poche difficoltà, Nilo torna a riva dando inizio al “cerimoniale del bruco” che si struscia sull’erba secca per asciugarsi.
Uscito con un retriever bianco, temo che rientrerò a casa dei nonni con un cane beige.
Chissà la gioia!
Confido nel loro rimbambimento senile per fargli credere che è sempre stato di quel colore.
Ora, però, la pressione bassa e il calo degli zuccheri sortiscono brutti scherzi, la testa inizia a vacillare e le forze spariscono d’incanto, e nella confusione che alberga nella mente, sogno o son desto, mi accascio sui gradini di questa estenuante scala di reminiscenze per riprendere fiato.
Dannato ascensore è ancora “fuori servizio”!
Neppure il tempo di calcolare quanti piani manchino per giungere all’appartamento dei miei figli che dalla porta di servizio, socchiusa, di un certo appartamento sento fuoriuscire una musica familiare: “…salirò salirò fra le rose di questo giardino e salirò salirò fino a quando sarò solamente un ricordo lontano”.
Già.