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Scuola e insegnanti di sostegno

scritto da Gisella Bassanini

Scuola, si ricomincia come ogni anno. Marta è una docente precaria di sostegno in un Istituto professionale di Milano. E, come accade a tutti gli insegnanti non di ruolo, ogni anno, proprio quando inizia a sentirsi a casa è costretta a cambiare scuola. Come in un gioco dell’oca, ogni settembre, riparte dal via e nel percorso incrocia la propria esistenza con quella dei suoi studenti, ogni anno diversi. È la trama di Solo se tu vuoi, romanzo di Tina Scopacasa uscito nel 2014, che leggendolo oggi pare ancora più attuale di allora. Senza contare che quanto narrato non è solo finzione, ma frutto di un’esperienza diretta, di un fare quotidiano vissuto in prima persona. E questo aggiunge valore all’insieme.

Nel libro si affrontano diverse tematiche e problematiche seguendo due fili di ragionamento: il primo è quello che coinvolge gli studenti (l’abbandono scolastico, la disabilità, i problemi tipici dell’adolescenza, i primi amori, le dinamiche all’interno della classe, la voglia di studiare o il rifiuto a farlo); il secondo, riguarda gli insegnanti (la dedizione, lo scoramento, la precarietà, le incertezze, la passione, i colleghi).

C’è poi, il rapporto – non sempre facile – tra la Scuola e le famiglie, a volte più complicato da gestire di una classe di scatenati.

Marta non smette mai di interrogarsi su cosa sia più giusto fare per il bene della sua classe e dei ragazzi di cui si deve occupare. In alcuni casi, sembra andare al di là del proprio ruolo ma alla fine ci si rende conto che questo forzare un po’ la mano è salutare.

In qualità di insegnante di sostegno deve accompagnare e sostenere i ragazzi più fragili. Il suo compito non lo svolge meccanicamente, non applica teorie, procedure e comportamenti in modo astratto. Al contrario, cerca il dialogo, la relazione; è attenta al contesto in cui si muove; si pone continuamente mille domande: “davanti alle urgenze della vita, qual è il ruolo di un docente di sostegno? Fin dove può o deve spingersi?”, si chiede.

Si esce dalla lettura di questo romanzo con tante domande, alcune le ho rivolte direttamente all’autrice:

Quale necessità o desiderio ti ha spinta a scrivere questo libro?

Le classi che ho incontrato nei primi anni di insegnamento mi hanno letteralmente disorientata. C’era un abisso tra le classi che frequentavo da studentessa e quelle in cui entravo come docente. Tralasciando i tradizionali problemi adolescenziali, ammetto che, a volte, sono tornata a casa piangendo per le situazioni difficili che alcuni studenti erano costretti a vivere (dal disagio sociale a quello familiare, ecc.). E il senso d’impotenza che provavo era ancora più doloroso. Non potevo cambiar loro il corso degli eventi, ma potevo almeno ascoltarli, incoraggiarli, non farli sentire soli. Dialogare faceva bene a loro e a me. Col tempo, e con l’esperienza, ho notato che alcuni avevano voglia di avere un punto di riferimento, qualcuno a cui appoggiarsi, con cui confrontarsi, non fosse altro che per un diverso punto di vista. E qualcuno seguiva un consiglio, un’indicazione, faceva tesoro delle esperienze – da me condivise – di altri coetanei, anche per riuscire a migliorare le relazioni con i pari. Allora perché non raccontare su più ampia scala questa parte di realtà scolastica nota sola a quei docenti che si imbattono in determinati istituti o classi? Perché non condividere le esperienze (seppur manipolate ai fini narrativi) di alcuni ragazzi con altri studenti, coetanei e adulti su un più largo raggio di azione?

Hai fatto diverse presentazioni pubbliche del tuo lavoro, anche nelle scuole, che tipo di domande ti sono state rivolte e quali temi sono emersi come più urgenti?

Gli studenti che lo hanno letto, e sono diversi, hanno molto apprezzato le modalità di relazione tra Marta e gli studenti, riconoscendo il fatto che, in effetti, non tutti, tra loro, sarebbero disposti a mettersi in gioco con un adulto, ma riconoscendone, alla fine, i vantaggi e le opportunità. E questo ha offerto loro un forte spunto di riflessione. Moltissimi si sono ritrovati nelle situazioni da me raccontate, in modo particolare quello di relazionarsi con i pari della propria classe, o con i genitori . Con tono speranzoso in tanti mi hanno chiesto: “Quante Marta ci sono nella scuola?”

Diversi sono invece gli interrogativi degli adulti, primo tra tutti come gestire il rapporto scuola-famiglia. A seguire ci sono le classi “pollaio”, la precarietà dei docenti e il ruolo che effettivamente dovrebbe rivestire un insegnante. E così, anche se la domanda degli adulti è la stessa di quella degli studenti, l’intonazione cambia decisamente: “Quante Marta ci sono nella scuola!” e le inflessioni vanno da quelle incredule, a quelle sconsolate, a quelle polemiche.

Marta sembra, in alcune circostanze, come colpita dalla sindrome da wonderwoman, una super-donna sempre in azione che cerca di coprire i vuoti lasciati dagli altri adulti che con ruoli e compiti diversi dovrebbero occuparsi dei ragazzi e delle ragazze, e non lo fanno.

Solo apparentemente Marta è una “faccio tutto io”, il punto di vista da cui si pone è un altro: “Provo a fare qualcosa io con-e-per” che è diverso. Fare in prima persona è arrogarsi il ruolo da protagonista; provare a fare qualcosa è, invece, mettersi in gioco insieme ad altri. E il ruolo che la protagonista si prefigge è quello di provare ad accendere un motorino di avviamento, il che vuol dire che molti pezzi devono funzionare intersecandosi tra di loro per far avviare qualcosa. Il ruolo di Marta, quindi, è quello di cercare di favorire un buon lavoro di rete tra tutti gli attori che ruotano intorno al mondo della scuola. Non è un traguardo così scontato, ma io sono fiduciosa: le cose miglioreranno, solo che per arrivare a buoni risultati è necessario conoscere meglio questo complesso, ingarbugliato, a volte contraddittorio, mondo che è il nostro sistema scolastico. Poi viverlo e amarlo.

Nella nostra Scuola, l’insegnante di sostegno riveste un ruolo sempre più delicato e decisivo, anche se non sempre diamo ad esso, sia all’interno del mondo scolastico, sia all’esterno, il valore che merita. Da molti anni sei un’insegnante di sostegno, cosa ti senti di dire a riguardo?

Il ruolo del docente di sostegno, se ben svolto, è davvero importante, in particolare in quegli istituti dove l’utenza è molto complessa e variegata. Innanzitutto bisogna chiarire un concetto: l’insegnate di sostegno è un componente a tutti gli effetti del consiglio di classe, sebbene assegnato a quella classe in virtù della presenza di uno, o più, studenti diversamente abili. Con questi ultimi la sua funzione è molteplice: facilitare l’apprendimento dei contenuti con metodologie e strumenti calibrati sulle effettive possibilità dei ragazzi; mediare tra loro e gli altri docenti; mediare nei rapporti tra scuola e famiglia; favorire l’integrazione nel gruppo dei pari. A volte questa funzione è tra le più delicate e difficili, perché si tratta di comprendere tutte le diverse personalità presenti in aula per poi trovare i punti di contatto da cui partire per facilitare l’integrazione. Apparentemente sembrerebbe semplice, invece è uno dei temi più ardui… Mi capita di parlare spesso di scuola con chi è fuori da questo mondo, e quando racconto le difficoltà e i disagi che vivono alcuni adolescenti, mi guardano increduli. Invece le classi sono sempre più articolate di difficoltà che si intrecciano: alunni stranieri, studenti con uno sfondo sociale terribile, ragazzi con genitori spesso assenti, altri troppo presenti al punto che sono proprio l’ostacolo nella formazione educativa, ma anche didattica dei loro figli. Il disagio adolescenziale è sempre crescente ed è necessario un continuo monitoraggio affinché questi ragazzi non escano dalla retta via e sconfinino in terreni scivolosi e dannosi per loro stessi e per gli altri. La presenza di un buon docente di sostegno all’interno della classe, è la principale risorsa di mediazione tra i ragazzi e il resto, intendendo per esso, i pari, gli altri docenti, le famiglie. Affinché dalla scuola escano studenti che siano prima di tutto buoni cittadini e poi forze pronte a diventare coloro che prenderanno il nostro posto nella società, è necessario un lavoro di rete, una collaborazione tra tutti… e un docente “mediatore” può essere di grande aiuto per facilitare questo percorso. Ma la strada è ancora in salita (anche se sempre meno ripida) perché ancora ci sono molte persone, anche nella scuola, che non riconoscono questo ruolo al docente di sostegno, quasi fosse di serie B. Mi capitava, all’inizio della mia carriera, che durante i colloqui con i genitori, quasi nessuno di loro volesse parlare con me dei loro figli, se non i genitori dei ragazzi col sostegno. Negli ultimi tempi parlo più con loro che con i familiari dei miei.

 


Tina Scopacasa, nasce nel 1967 a Vibo Valentia. Laureata in Scienze Politiche all’Università degli Studi di Milano, supera ne 2001 il concorso ordinario per il conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento di “Discipline giuridiche ed economiche”. È insegnante di sostegno dal 2002, dopo aver ottenuto la specializzazione presso l’Università Cattolica di Milano. Dopo molti anni di precariato è finalmente di ruolo, come docente di sostegno, presso l’Istituto d’Istruzione superiore Caterina da Siena di Milano. Per Qualecultura/Jaca Book (2001) ha pubblicato il saggio “lo Sviluppo locale. Uno strumento d’intervento dal basso: Il GAL Serre Vibonesi”. Solo se tu vuoi è la sua prima opera di fiction.

Il libro è disponibile in digitale su Amazon oppure in forma cartacea è reperibile scrivendo all’associazione Smallfamilies. Per maggiori informazioni consultare la pagina Facebook Solo se tu vuoi.

autore

Gisella Bassanini

Docente e ricercatrice, ho una figlia, Matilde Sofia. Coordino le attività di  Smallfamilies aps di cui sono fondatrice e presidente.  Seguo in particolare  l’area  welfare e policy, le questioni legate all’abitare e per il nostro Osservatorio mi occupo dello sviluppo  di  progetti di ricerca sulle famiglie monogenitoriali e più in generale sulle “famiglie a geometria variabile”.

Abito a Milano (città che amo) e, dopo la laurea in architettura al Politecnico di Milano,  ho trascorso molti anni  impegnata  in università (dottorato di ricerca, docenza, scrittura di libri) e nella libera professione (sviluppo di processi partecipativi,  piani dei tempi e degli orari della città, approccio di genere nella progettazione architettonica e nella pianificazione urbana). Ora insegno materie artistiche nella scuola pubblica e continuo nella mia attività di studio e ricerca in modo indipendente. La nascita di mia figlia nel 2001 ha trasformato profondamente (e in meglio) la mia vita, nonostante la fatica di crescerla da sola. Da allora, il desiderio di fare qualcosa per-e-con chi si trova a vivere una condizione analoga è diventato ogni giorno più forte. Da questa voglia di fare e di condividere, e dall’incontro con Michele Giulini ed Erika Freschi, è nata Smallfamilies aps, sintesi ideale della mia storia personale e del mio percorso professionale.

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