Abitare CULTURE E SOCIETÀ

Vivere in compagnia: il cohousing

scritto da Gisella Bassanini

Vivere in compagnia trovando forme di co-abitazione tra persone non consanguinee e neppure legate da vincoli matrimoniali o di coppia sono sempre esistite nella storia. Si tratta di gruppi di persone che a un certo punto della loro vita decidono di vivere sotto lo stesso tetto condividendo spazi e tempi domestici, necessità materiali e spesso le proprie solitudini. I motivi che portano a tale scelta sono differenti. In questi ultimi anni, complice la crisi, assistiamo a un ritorno di questa forma di abitare che nulla ha a che vedere con la scelta di vivere in una comune o di partecipare attivamente a una esperienza di cohousing. Si convive per necessità economiche o per il desiderio di vivere una esperienza di mutuo-aiuto, una adozione reciproca. Si ha una stanza in più, rimasta vuota perché i figli se ne sono andati, ci si è separati o si è rimasti vedovi, oppure perché non si riesce più a mantenere da soli una casa diventata troppo grande e si decide di metterla a disposizione di qualcuno/a che una stanza la sta cercando, magari perché a sua volta é rimasto/a solo/a. In Italia, tra i casi più noti vi sono quelli che coinvolgono anziani e studenti universitari: la persona anziana offre una stanza e il giovane in cambio si fa carico di piccoli aiuti domestici e di compagnia risolvendo così il grande (e spesso insormontabile) problema dei costi esagerati degli affitti che ci si deve sobbarcare per studiare lontano da casa. Ci sono le case abitate da studenti o da lavoratori e lavoratrici temporanei dove si convive, spesso forzatamente, in attesa di tempi migliori per il lavoro o della fine dell’università. Numerosi poi sono i genitori single che tornano a convivere con la famiglia d’origine dopo la separazione non potendo fare diversamente. Forme di residenzialità ancora diverse sono invece quelle gestite mediante noti siti. E’ il fenomeno, in forte crescita anche da noi, dell’ospitalità diffusa nelle case private quale risposta alla scarsità nel nostro paese (e nelle grandi città) di strutture ricettive accessibili economicamente e alla volontà di mettere a reddito anche solo pochi metri quadrati della propria casa non riuscendo più a campare del proprio lavoro.

Questi modi di co-abitare contemporanei, mi fanno tornare alle mente, pur con le debite differenze, una storia che risale alla Bologna popolare della fine Settecento e riguarda due tipologie di co-abitazione che coinvolgono donne e uomini che vivono al di fuori del nucleo familiare. Scoperte negli archivi parrocchiali, queste due forme di co-abitazione sono: il vivere “a compagnia” e il vivere “a dozzina”. La prima, è maggiormente praticata dalle donne non consanguinee le quali, per far fronte alla durezza della vita quotidiana e materiale, alla povertà e alla solitudine, reagiscono mettendo in comune uno spazio, dividendo le spese e aiutandosi nella cura dei figli o in caso di malattia. La seconda, è invece la forma preferita dagli uomini e prevede l’occupazione di un letto o di una stanza in cambio del pagamento di una retta settimanale o mensile. Si tratta di uno scambio di servizi domestici e prestazioni monetarie all’interno di uno spazio che spesso è quello di una famiglia. Fra le donne questa formula è meno diffusa. A farne uso sono abitualmente le donne straniere o le religiose. Le convivenze “miste”, quelle cioè tra donne e uomini adulti non consanguinei, risultano invece poco praticate. La storica Maura Palazzi, alla quale devo la conoscenza di queste esperienze di co-abitazione, rileva come in questa esperienza emerga una forte differenza nei modi di abitare delle donne e degli uomini. Quando si aggregano a un nucleo non parentale – scrive – gli uomini adulti lo fanno essenzialmente come fruitori di servizi retribuiti, mentre le donne tendono a condividere in maniera più o meno paritaria la condizione delle altre componenti femminili della “nuova famiglia”, le affiancano nella gestione del ménage e cercano in cambio anche protezione e sostegno. Un’altra storica, Raffaella Sarti, aggiunge a riguardo come queste donne (vedove, nubili, “malmaritate”) scelgano uno stile di vita comunitario che rappresenti qualcosa di più di un tetto sotto il quale trovare rifugio. Si avvertono ragioni che sembrano andare al di là delle primarie necessità della “nuda vita”. Per esempio, la volontà di sperimentare forme di solidarietà fra donne con l’intento di trasformare la fragilità della propria solitaria esistenza in una forza di gruppo; di diventare capaci di fronteggiare, stando insieme, le avversità della vita materiale e al contempo difendersi dai giudizi impietosi che una parte della società rivolge loro perché sono “donne senza uomini”, come venivano chiamate allora. Ho per molti anni studiato e scritto sulla storia dell’abitare femminile e sostenuto come vi sia infatti una cultura dell’abitare che per le donne, più che per gli uomini, risulta fortemente segnata dalla relazione, dal desiderio/necessità di “stare insieme”. Forse è anche in questa ottica che va interpretata l’esperienza riuscita solo a metà del Comune di Savona. Pochi anni fa, mi ha raccontato recentemente l’Assessora alla promozione sociale e pubblica istruzione Isabella Sorgini, per fronteggiare una vera e propria emergenza abitativa che coinvolgeva i genitori soli (padri e madri) con figli a carico il Comune ha cercato di promuovere forme di co-abitazione andando al di là degli abituali alloggi temporanei per padri separati e madri sole come in genere le istituzioni fanno (quando lo fanno). L’idea di fondo è stata quella di individuare appartamenti liberi e di metterli a disposizioni di madri, o padri, affinché potessero convivere insieme tra loro e con i propri figli risolvendo così il drammatico problema della casa e al contempo dando inizio ad un percorso di autonomia. Il risultato è stato che solo un padre con figli si è reso disponibile a convivere con altri padri (tutti gli altri hanno rifiutato la proposta) mentre sono state, e sono, diverse le madri single che ancora abitano questi appartamenti. Questa storia è significativa per molti aspetti ma soprattutto ci racconta quanto debba essere ancora fatto nel nostro paese affinché una riflessione matura sulle necessità abitative delle smallfamilies trovi le risposte che merita, anche tenendo conto delle differenze che esistono nei modi di abitare delle donne e degli uomini, delle madri e dei padri. Ignorarle non aiuta a risolvere il problema.

Foto di StockSnap da Pixabay

autore

Gisella Bassanini

Docente e ricercatrice, ho una figlia, Matilde Sofia. Coordino le attività di  Smallfamilies aps di cui sono fondatrice e presidente.  Seguo in particolare  l’area  welfare e policy, le questioni legate all’abitare e per il nostro Osservatorio mi occupo dello sviluppo  di  progetti di ricerca sulle famiglie monogenitoriali e più in generale sulle “famiglie a geometria variabile”.

Abito a Milano (città che amo) e, dopo la laurea in architettura al Politecnico di Milano,  ho trascorso molti anni  impegnata  in università (dottorato di ricerca, docenza, scrittura di libri) e nella libera professione (sviluppo di processi partecipativi,  piani dei tempi e degli orari della città, approccio di genere nella progettazione architettonica e nella pianificazione urbana). Ora insegno materie artistiche nella scuola pubblica e continuo nella mia attività di studio e ricerca in modo indipendente. La nascita di mia figlia nel 2001 ha trasformato profondamente (e in meglio) la mia vita, nonostante la fatica di crescerla da sola. Da allora, il desiderio di fare qualcosa per-e-con chi si trova a vivere una condizione analoga è diventato ogni giorno più forte. Da questa voglia di fare e di condividere, e dall’incontro con Michele Giulini ed Erika Freschi, è nata Smallfamilies aps, sintesi ideale della mia storia personale e del mio percorso professionale.

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