Tra gli articoli letti in questi mesi ce ne sono due che riprendo perché rappresentano in modo emblematico quanto siano complesse, e spesso contraddittorie, le trasformazioni che stanno attraversando la società e soprattutto le famiglie italiane.
Tra crisi, cambiamenti, resistenze, strategie di sopravvivenza, ci sono coppie “scoppiate” che sono obbligate a convivere sotto lo stesso tetto perché non possono permettersi di fare altrimenti e coppie felici che si separano per finta (i “furbetti della famiglia” potremmo chiamarle) per opportunità e guadagno.
C’è poi Simona e la sua storia di monogenitrice tutta da dimostrare.
Della prima tipologia (i separati in casa) ne parla una indagine di alcuni mesi dal titolo emblematico “La casa ai tempi del divorzio”, realizzata dall’Istituto di ricerca Demoskopea per conto di Immobiliare.it. Su un campione rappresentativo di circa 2,7 milioni di cittadini italiani, la ricerca attesta che il 22,6% dei divorziati sta ancora pagando le rate del mutuo della casa coniugale. Una realtà giustificata dal fatto che, nella maggior dei casi, gli ex-coniugi non trovano un accordo sulla vendita dell’abitazione a terzi o si vedono negata la richiesta di finanziamento dalle banche per acquistare un nuovo appartamento. Il risultato è che una buona parte di queste ex-coppie decide, volente o nolente, di stare da separati sotto lo stesso tetto, mentre il 10,9% sceglie di tornare ad abitare nella casa dei genitori.
Della seconda tipologia (le finte famiglie monoparentali) ne dà conto un articolo apparso sul “il Venerdì” de La Repubblica del 14 marzo 2014 (pag. 48), titolo “Separasi per finta; la via furbetta per pagare meno” firmato da Giampiero Cazzato. Si stima che siano 7 coppie su 100 a simulare una separazione per evitare il cumulo di redditi e risparmiare sulle tasse universitarie dei figli, per entrare più facilmente nelle graduatorie dei nidi e delle materne, per pagare meno le rette, la mensa scolastica, i ticket.
Riprendendo queste due notizie, il mio pensiero va affettuosamente a Simona che per un anno intero ha dovuto combattere con la scuola di sua figlia (e con il Comune di riferimento situato in una delle regioni e provincie tra le più ricche d’Italia) per affermare i propri diritti di monogenitore e dimostrare che lei è veramente sola a mantenere la famiglia perché il padre della bimba vive oramai a 400 chilometri di distanza, ha un’altra famiglia e non si occupa di lei pur avendola riconosciuta. Alla fine Simona ci ha fatto sapere che è riuscita a iscrivere sua figlia alla scuola pubblica situata vicino ai nonni (unico aiuto per lei che lavora) avendo riconosciuto il punteggio riservato ai monogenitori ma questa vittoria, o meglio questo diritto lo ha potuto esercitare perché non si è persa d’animo davanti ai ripetuti “no”, alla mancanza di informazioni chiare circa la documentazione da produrre per attestare il suo status di monogenitore, al comportamento di alcuni operatori/operatrici della segreteria scolastica che sapendo dell’esistenza di finte famiglie monogenitoriali “manifestano scetticismo di fronte a qualsiasi nucleo familiare diverso dallo standard”. E poi quel continuo ripetere le proprie vicende personali e familiari, ad ogni operatore, ad ogni sportello, quel sentire raccontare di sé dagli impiegati che, nel dubbio, si telefonavano vicendevolmente in cerca di chiarimenti: “è stato come essere messi sotto una lente di ingrandimento, in pubblico”.
Nel caso di Simona il buonsenso ha prevalso, il dirigente scolastico si è fatto carico della sua storia e del suo problema e l’ha aiutata. Ci auspichiamo tutt* uno snellimento della burocrazia, un principio di equità che non sia lasciato al buon cuore e buon senso dei singoli, maggiori controlli nei confronti delle finti genitori soli e una modalità più rispettosa delle vicende e difficoltà umane. È una questione di civiltà, di giustizia sociale. Lo pretendiamo.
Foto di Gordon Johnson da Pixabay