La mia storia con Yaro è iniziata molti anni fa. E fino al 2018 sembrava una storia destinata al lieto fine, come ho raccontato allora a Smallfamilies, qui e qui.
E poi invece è tutto cambiato. Per tre anni. Fino a quando la situazione geopolitica attuale ci ha incredibilmente riuniti.
Nel 2018 era arrivato in Italia dall’Ucraina, come al solito, per le vacanze di Natale. Nei mesi precedenti avevo avuto difficoltà a comunicare con lui via telefono. Non avevo dato molto peso alla cosa, avevo pensato che in Istituto gli avessero tolto il cellulare a causa di qualche monelleria.
Quando arriva mi salta addosso ma io subito noto i suoi occhi bassi, come se non volesse guardarmi. Penso che abbia sofferto l’aereo. Poi una delle mamushke che accompagnavano i ragazzi, peraltro vicedirettrice del loro istituto Rodyna di Kharkiv, nella sua incompetenza psicologica mi dice: Yaro è bambino fortunato.
Ho pensato al solito complimento nei mie confronti: non esageriamo, fortunato… la vita gli ha tolto tante cose…
No no, dice lei, ti dobbiamo raccontare.
Mi allarmo.
Anche una mamma di Bologna cui davo un passaggio in stazione, con il suo ragazzino, in macchina mi dice: ma Armando, l’hai saputa la novità di Yaro? Quale novità? dico io.
– ho saputo che a Kharkiv, in orfanotrofio, va sempre una signora a trovarlo.
Yaro la blocca e dice: no, lo voglio dire io.
Mi irrigidisco completamente.
A casa, ancor prima di posare le valigie, gli dico: voglio sapere che cosa è successo.
Lui allora tira fuori un pacco regalo.
– Ma come, io ti mando soldi per te e tu li spendi per un regalo per me?
– No no, risponde, questo è un regalo di quella signora che mi viene a trovare.
Al che io sono esploso.
Ho chiamato l’associazione italiana e ho chiesto: perché non mi è stato comunicato nulla? Stanno facendo trattative e io non ho il diritto di sapere? Sapete che io ho sempre avuto con lui un progetto di vita.
Piangevo ed ero fuori di me. Loro dicono di non saperne nulla.
Dopo due giorni era previsto che partissimo per Ostuni, per andare dai nonni a trascorrere le vacanze. E là lo aspettavano tutti. Ho deciso di tenere il dolore solo per me e di non dire niente a loro anche perché Yaro me l’ha chiesto: non dire niente a nessuno perché io mi vergogno.
Quindi con la mia famiglia abbiamo finto.
Il fatto che i bambini venissero in Italia non dava a noi affidatari temporanei nessun diritto. Loro erano in stato di adottabilità o affido. E lui mi racconta che Rodyna sta per chiudere. Gli hanno detto: guarda che tu non hai molta scelta, questa signora è una brava persona e il tuo padre italiano non può fare niente fino ai tuoi 18 anni. Se chiude l’istituto che fine fai?
Ma lui a me dice: io non voglio lei come madre, io voglio te.
Io capisco: la direttrice di Rodyna mi aveva sempre detto che avrebbe cercato di “conservarlo” per me. Però l’istituto doveva chiudere, e lei si vede arrivare questa signora che lo ha visto in un video online e che vuole proprio lui, non un bambino qualunque. Si convincono a darlo in affidamento a lei per il fatto che la famiglia è benestante.
Dopo che il mio rancore si è sopito, durante il periodo natalizio, abbiamo cercato di ragionare, di fare il possibile. Ogni tanto lui parla al telefono con lei ma mi dice: se tu puoi fare qualcosa, io rinuncio a loro.
Abbiamo allora provato a rintracciare sua sorella, maggiorenne, pensando a un escamotage, sperando che lei potesse prenderlo, visto che i parenti diretti hanno diritto all’adozione. Essendo lei nullatenente e nullafacente, avevo pensato di prendere per lei una casa in affitto in modo che potesse dimostrare di poter tenere il fratello, ma non sono riuscito a percorrere neppure questa strada.
Quando torniamo a Milano da Ostuni, mi dice che la signora e il marito, gli affidatari, sono a Milano per un casting della figlia in un’agenzia milanese di modelle.
E mi chiama la vicedirettrice, ugualmente a Milano, per propormi di incontrarli. Pensava che avrei potuto accordarmi con loro perché me lo inviassero in estate, quasi fosse un pacco.
Sono triste ma penso: accontentiamoci del part time, anzi del part time del part time, perché part time già lo era. Quindi vado all’incontro, insieme a Raissa, la signora che mi aiuta con le pulizie di casa, che parla ucraino.
Nell’hotel dove alloggiavano, lei mi mostra le foto di dove sarebbe andato a vivere il ragazzo, a Kharkiv, la loro casa al 18° piano. Lei immobiliarista, il marito dirigente della compagnia del gasdotto.
– Perché hai scelto lui?
Risponde che l’aveva visto su Internet e le era piaciuto tantissimo.
– Ma tu hai già figli. Perché vuoi adottare?
– No, io non voglio adottare, voglio fare da “sponsor” (in ucraino pikùn).
– Come mai?
– Mi sembra ingiusto che un bambino viva in istituto ed esca solo periodicamente: tu hai avuto il tempo per adottare e non l’hai fatto.
Le spiego che in Italia è possibile farlo solo al compimento dei 18 anni e che quindi non dipende dalla mia volontà ma dalla volontà giuridica italiana.
Capisco che siamo agli antipodi e che non avrei potuto fare neppure il part time del part time.
E di questo non sono pentito. Era evidente che avessimo visioni diametralmente opposte. Non c’erano basi educative comuni. Consumismo e retaggio culturale dell’apparenza, non della sostanza.
Lei chiede: come mai Yaro non è venuto all’incontro?
– Non è voluto venire. Se vuoi gli parli e chiedi a lui.
Al telefono lui le dice qualcosa del tipo: non sono convinto.
E lei a quel punto taglia corto: – lui è attratto dall’Italia, ma il suo paese è l’Ucraina. E comunque le carte sono state già fatte.
Desolato, torno a casa e gli dico: godiamoci questi ultimi giorni perché io e te non ci rivedremo più. Non è colpa tua, la vita ci vuole dividere. Dobbiamo prenderne coscienza. Ma non ti preoccupare. Io non ti posso proporre nulla sfortunatamente per cui sentiti libero.
Penso che non sia giusto lasciare che un ragazzino a quell’età decida, e nemmeno che debba combattere contro i mulini a vento. Anche perché la direttrice lo avrebbe tartassato perché lei aveva benedetto questa unione.
Lui le aveva addirittura mandato un messaggio su Messenger per dirle che ci aveva ripensato, che non voleva lasciare suo padre.
Ma il messaggio non ha mai avuto risposta. Il dado era tratto.
Lui parte. La mia ultima frase è stata: ti posso solo dire che quando avrai 18 anni potrai venire. Ricordati che il mio cuore e la mia casa sono sempre aperti per te. Se vuoi rimanere in contatto con me mi fa piacere, se no va tutto bene, quello che ti ho detto varrà sempre, qualunque scelta tu faccia.
A marzo era già trasferito. Dopo tre mesi. Ovvero, prima di partire era già stato tutto stabilito.
Per qualche mese ci sentiamo, di tanto in tanto, ma lui è rissoso, deve evidentemente trovare una motivazione per segnare il distacco. Per giunta lei lo ha convinto insistendo sul fatto che io l’avevo lasciato in istituto oppure dicendogli che se avessi voluto, avrei potuto sposare una donna ucraina per fare in modo di tenerlo con me.
Lui si voleva convincere e si è lasciato convincere. Mi chiede persino di togliere dal mio profilo Instagram delle foto di noi due che peraltro aveva caricato lui stesso.
Taglia con me, taglia con l’istituto. Sparisce, io non lo cerco più, anche se ovviamente rimane una presenza forte nella mia vita.
Dopo qualche tempo, uno dei ragazzini dell’istituto che non era mai riuscito a venire in Italia si fa vivo con me, sperando palesemente di poter prendere il posto di Yaro.
Vengo poi a sapere che l’unica volta in cui Yaro si presenta in istituto è per fare a botte con questo ragazzino.
Poi, nel 2020, durante il lockdown, mi arriva un messaggio in ucraino da un utente sconosciuto:
– ciao come stai, ma ti sei preso un altro bambino?
Capisco che è lui e rispondo: – io sto bene. Chi sei?
– Sono un bambino che è venuto a stare da te per tanti anni.
– Ah sì, faccio finta di niente, mi fa piacere. tu come stai? No, non ho preso altri bambini
– Però hai sbagliato perché mi ricordo che tu lo sai fare il papà. Potevi avere altri figli.
E io gli rispondo, utilizzando sempre il traduttore: i figli non sono come i maglioni che si scelgono e si cambiano a piacimento. I figli sono per sempre. Io nella mia vita l’ho avuto. Non posso trovare un rimpiazzo. Certamente se potrò aiutare altre persone sì, è nel mio stile di vita, ma la parola figlio non la userò più.
Rincuorato, inizia a sciogliersi, riprende confidenza e mi racconta, mi dice che non è in quel modo che voleva la famiglia e che a 18 anni vuole venire a ringraziarmi. Chiede di mandargli foto nostre e a un certo punto mi manda un cuore con scritto: buonanotte papà. E io capisco che per lui c’ero, anche se aveva provato ad uccidermi.
Non voglio creare problemi con la famiglia, irrompere nella loro vita, cerco una via di contatto discreta. Comunichiamo con il traduttore finché un giorno mi manda un video del cane di casa, con la sua voce che lo sgrida, in italiano: devi essere educato, devi fare il bravo.
Le stesse cose che gli dicevo io. Era la mia imitazione.
Allora mi racconta che si ricorda ancora l’italiano perché guarda i video dei rapper italiani. E dice: perché io voglio venire in Italia.
Inizia a telefonarmi per sfogarsi. È nervoso. A causa del lockdown sta molto di più con loro del solito, pur avendo la sua camera, e mi chiede aiuto, ma io non lo posso aiutare.
Dice: – Non sono come te.
Mi racconta dei due figli grandi. Un ragazzo universitario che viveva fuori casa e con cui aveva una relazione di gioco e una ragazza che invece viveva in casa con loro con cui niente, zero. E lui comunque non era mai presentato come figlio.
E io: – Non devi fare confronti, possono solo farli innervosire. Per loro io non ci devo essere, ti crea solo maggior fastidio.
Nel 2021 Rodyna effettivamente chiude e Yaro viene a sapere di un progetto della comunità Emmaus che esiste sia in Italia che a Kharkiv per promuovere inclusività sociale a ragazzi usciti dagli orfanotrofi, con scambi fra Ucraina e Italia.
Ipotizza di partecipare. Io lo sconsiglio, gli spiego che è quel percorso non può aiutarlo a riavvicinarsi a me.
Impaziente, ansioso, litiga più volte con loro.
– Se proprio vuoi, vai da lui.
Io ero anche disponibile a prenderlo d’estate, ma la patria potestà era loro. In ogni caso non si combina nulla. Lui mi chiama ma non mi manda foto né video. Avrei capito più tardi quali fossero le sue contorsioni psicologiche. Temeva che vedendolo cambiato, cresciuto, non lo avrei più accettato.
E così va avanti, finché arriva la crisi con la Russia. Yaro mi racconta che continua ad andare a scuola, che è tutto a posto, comunque ci sentiamo più spesso.
La sera dell’invasione, il 24 febbraio, abitando a Kharkiv, al 18°piano, si sono subito accorti delle bombe al confine e hanno deciso immediatamente di scappare.
Lui mi telefona con tono tragico: qui c’è la guerra, non voglio morire.
Partono con la loro Range Rover verso un albergo dove di solito vanno in montagna, dalla parte opposta dell’Ucraina, quella più occidentale.
Mi dice che lì sarebbe stato difficile sentirsi perché non c’è wifi. Ci siamo sentiti sempre solo via Messenger, là non usano whatsapp.
Io sono entrato in fibrillazione. Sapere della guerra, della fuga, sapere che per prima cosa ha telefonato a me per chiedere aiuto, mi ha messo molto in agitazione, ha scoperchiato il vaso di Pandora.
Io già mi stavo interessando, avevo provato a chiedere a tutti, nessuno riusciva ad aiutarmi. E lui mi diceva: come? tutti vengono in Italia e io che ho il padre lì non posso venire?
Gli dico: parlane con lei. È lei che deve fare in modo di poterti affidare a me.
Lei è d’accordo. Ma non parla inglese.
Riesco a trovare una prof.ssa della Cattolica che mi aiuta con la traduzione.
Lei inizia ad avanzare pretese, non tenendo conto che con la guerra alcuni parametri legali saltano.
Partono comunque trattative sfibranti.
Una possibile soluzione sarebbe stata quella di consegnarlo a Sasha, un volontario che partiva dall’Italia per portare pacchi alla frontiera con la Polonia.
Lei insiste che vuole consegnarlo solo a me personalmente. E mi indica un posto di frontiera con la Polonia lontanissimo, vicino alla Bielorussia.
Loro sarebbero rimasti in Ucraina. Dall’albergo si erano spostati nel paese vicino a quel confine. Ora invece sono a Kiev, sempre aiutati dallo Stato.
Non vogliono uscire dall’Ucraina per proteggere il figlio.
Mi sono detto: Armando devi farlo.
In aereo avrei avuto problemi perché il ragazzo veniva affidato a me ma non c’era ancora la tutela. Quindi decido di partire con la mia macchina.
Il figlio di una mia amica, Niccolò di 28 anni, cui piace guidare, sente sua madre parlare al telefono con me del progetto e si dà subito disponibile a venire a Milano da Roma per accompagnarmi. E gli altri amici mi danno la carica, mi sostengono, mi incitano.
Soltanto un mese prima avrei detto che non ne sarei stato capace, che non ce l’avrei fatta.
Partiamo mercoledì 9 marzo, monitorati da un’amica per prenotazioni, controlli sul traffico etc
Sasha mi aveva consigliato di passare dall’Austria ma io non volevo fare troppa strada in montagna.
La mia scelta cade sul tragitto un po’ più complicato: via Slovenia, Ungheria, Slovacchia e Polonia.
Dormiamo in Slovacchia e per essere al confine polacco-ucraino la mattina del 10, come concordato con lei, ci svegliamo alle 5.
Il problema maggiore è stato in Polonia. Il nostro itinerario prevedeva strade secondarie, non l’autostrada. Abbiamo trovato la neve, le strade ghiacciate, le macchine camminavano lentissime e avevamo difficoltà per rifornimento benzina.
La frontiera fra Uhryniv, in Ucraina, e un luogo in Polonia dal nome impronunciabile è in una landa desolata dove c’erano solo rifugiati in partenza per Germania o paesi del nord Europa.
Nessuno parla una parola d’inglese.
Yaro mi messaggiava che dovevano fare le carte.
Io aspettavo nervoso vicino alla sbarra, infreddolito e senza guanti perché ero sceso dalla macchina per non perdermi il suo arrivo. Dovevo anche consegnare alla Croce Rossa un carico di torce elettriche, candele, medicinali e viveri ben definiti per Kharkiv, città che conoscevo bene. Sono in contatto con persone che avevo conosciuto là nei vari periodi trascorsi quando andavo a trovare Yaro.
A un certo punto vedo la loro macchina, la Range Rover bianca. In quanto accompagnatrice di un minore, lei aveva avuto il permesso di portarlo oltre la sbarra.
Come l’hanno alzata, lui ha aperto la portiera della macchina e ha iniziato a corrermi incontro. Il mio amico voleva filmare ma gli ho detto di no.
Lui capisce subito che stavo per piangere e mi dice: no, non piangere, non mostrare a lei che piangi.
Non si mostrano i sentimenti, non è maschile. Infatti loro si sono salutati in maniera piuttosto fredda. Lei gli ha detto: mi raccomando, scuola scuola.
Appena preso lui, ho chiesto all’amica che ci monitorava di non prenotare un albergo in Polonia, ma in Slovacchia.
Ho avuto la sensazione di dover scappare via dalla Polonia, da quel silenzio opprimente. Tutto quel biancore e la vicinanza al confine mi creavano angoscia.
Sono stati 180 km faticosissimi, abbiamo impiegato un’infinità di tempo e siamo arrivati alle 11 di sera.
L’indomani, 11 marzo, siamo ripartiti e siamo arrivati a Milano dopo la mezzanotte.
In macchina Yaro parlava, ma non voleva mostrarsi emotivo con il mio amico, faceva il ganzo come se niente fosse e continuava a dire parolacce su Putin. Si sfogava così.
Mi diceva che aveva potuto portare con sé solo poche cose ma che a casa ne aveva tante, tutte firmate etc. Capivo che temeva potessi non volerlo. Aveva paura che il suo cambiamento estetico, esteriore, potesse essere un limite.
– Non ti preoccupare, non mi interessa. Le cose non sono importanti.
Non mi aveva mai mandato foto o video. In effetti, vederlo così trasformato è stato uno shock. Non era più il mio bambino.
Segue molto l’informazione attraverso canali ucraini. È molto nazionalista, secondo una mentalità inculcata, però un giorno mi ha detto: deve essere un segreto fra noi, ma alla fine questa guerra a noi ha fatto comodo.
– Hai ragione, ho detto, anch’io mi vergogno a dirlo, ma la penso anch’io così.
Aveva assorbito una modalità e mentalità differenti dalla mia e in viaggio mi ha detto: sai, non sono più come volevi tu, educato, pronto a parlare. Adesso la vita mi ha fatto capire che devo usare le mani.
A dimostrazione che quanto avevo intuito tre anni prima era giusto. Barriere culturali. Il fatto che la famiglia stesse bene economicamente forse era stato un guaio ancora peggiore.
Inizialmente non è stato per niente facile. Era come se mi volesse far pagare gli anni di distanza.
Quando siamo riusciti a parlarne mi ha detto: non hai capito niente. Io sono di qua e non mi voglio più muovere di qua. Dimmi come sbaglio, fammi tornare come ero prima.
Poco a poco, nel privato, è effettivamente tornato affettuoso come prima, alla ricerca di coccole e scambi di affetto.
Una sera mi ha detto: mi devi fare un regalo, posso dormire con te?
Non vuole piangere, non vuole mostrare i suoi sentimenti, ma infine ha ceduto e mi ha detto: lo sai, in questi tre anni ho sempre sognato di dormire nel tuo letto.
Il ragazzone mi ha poi anche detto: non ti voglio più far piangere. Se piangi penso che stai male. Come la volta in cui sono andato via.
Rimane che è in età puberale, che ci gioca, che è furbo: io sono tuo figlio e un papà queste cose le deve fare per un figlio…
Di cose brutte non si parla, né di guerra, né di niente. Quando si parla della sua famiglia in Ucraina si innervosisce. Cancellerebbe questi tre anni ed è infastidito quando mi chiedono del mio viaggio, di noi, Vorrebbe che fosse una cosa nostra privata. Che andava fatta in quanto io sono suo padre.
È stato inserito a scuola. Fa il primo alberghiero all’Istituto Amerigo Vespucci a Milano.
Mi interessava mandarlo a una scuola pubblica e pensavo lo potessero inserire come uditore. Avevo anche firmato delle carte in cui dicevo che mi impegnavo a mantenerlo economicamente e scolasticamente, e non volevo inserirlo in un corso di lingua italiana, ma in una scuola dove a settembre, già inserito, potrà procedere in un percorso scolastico vero e proprio.
A scuola il preside mi dice invece che può già inserirlo come alunno a tutti gli effetti quindi ho subito comprato tutti i libri e l’attrezzatura per le varie formazioni: barman, direttore sala etc
Lui a Kharkiv frequentava già un istituto simile, non un liceo, perché aveva calcolato che se avesse frequentato il liceo sarebbe dovuto rimanere là oltre i 18 anni mentre l’idea sua era quella di venire in Italia il prima possibile.
E alla fine è andata bene anche quella scelta. Per lui l’italiano è ancora non fluido quindi un altro tipo di scuola sarebbe stato troppo complicato.
Gioca a basket e ha qualche problema a frequentare gli italiani. Ha conosciuto un ucraino che non parla italiano quindi lui fa il figo, lo porta in giro, gli spiega, ha bisogno sempre di essere leader, e con gli italiani ancora non può.
Ogni tanto gli escono delle rigidità, delle battute razziste o maschiliste.
Mi aspetta un gran lavoro. Devo riattaccare e riannodare i fili. Lui per fortuna mi fa capire che vuole cambiare.
L’assistente sociale dove abbiamo fatto colloqui separati, prima lui poi io, mi ha detto: sa il fatto suo, ha parlato tantissimo e ha capito molto bene come funziona qui, lo sa vedere meglio di come lei possa pensare. E ha una stima infinita nei suoi confronti.
Io le ho detto che da quando è arrivato non fa che controbattere, darmi contro e lei dice: ci sta tutto.
Quando siamo usciti mi chiede: – che ti ha detto?
E io: – niente…
E lui furbo: Non ti illudere… Sai che mi hanno detto?
– Me lo vuoi dire? Dimmelo.
– Mi hanno vedere schede di vari possibili padri e ho visto che c’erano foto di uomini belli, sportivi, giovani.
– Spero che tu sia stato furbo e abbia indicato come ideale un padre giovane, sportivo etc visto che io sono vecchio e brutto…
E lui: il padre non si può scegliere, quello che hai, hai. Però basta, altrimenti ti monti la testa.
In questi mesi ho dovuto sbrigare tantissime pratiche. Permessi di soggiorno, questioni sanitarie, l’Italia è piena di burocrazia. Telefoni che non rispondono, appuntamenti continui, visite a casa. Dicono che per i rifugiati è tutto più semplice. Non è vero.
Il giudice che doveva verificare se il ragazzo fosse inserito nel tessuto italiano e familiare, gli ha chiesto: questo signore chi è per te?
– Mio padre.
– E dove dormi? Nella camera mia.
– Com’era la famiglia in Ucraina?
– Non era una famiglia. Erano pikun, papà traduci.
– E come stai? Ti piace qui? Vorresti stare con la tua famiglia là? Con questo signore?
– Non con questo signore, con mio padre. Là non ho famiglia. I genitori veri li ho persi.
Per fortuna, quando sentono la nostra storia, capiscono di avere a che fare con un caso particolare.
Lui addirittura mi rimprovera di non chiamarlo figlio. Perché nella sua lingua lo fanno. Gli ho spiegato che noi no, noi usiamo sempre il nome proprio.
Quando lo presento e dico: questo è il mio ragazzo. Lui dice: no, mio figlio.
Per lui la famiglia è cominciata con me.
Con i miei genitori, ad Ostuni, è stata una Pasqua bellissima. Lui impazzito: papà torniamo, non voglio andare a scuola, voglio stare a Ostuni.
I nonni e gli zii anche impazziti: soldi, regali, cibo, brindisi… e ha anche ritrovato il suo amico storico, invitato a casa il giorno del suo compleanno.
Là si sente protetto e libero. Non lo posso rimproverare perché i nonni lo viziano quindi mi chiede permessi di fronte a loro e io non posso dirgli di no.
Mia madre gli ha detto: stavo male pensando al viaggio di mio figlio ma ero contenta perché veniva a prendere te.
Da quando c’è lui, mi chiama tutte le sere. Diceva sempre: tornerà da te ma peccato perché, quando avrà 18 anni, io sarò troppo vecchia e magari non lo vedrò più.
Ora che è qui, vorrebbe che glielo mandassi in giugno a fine scuola ma non lo posso fare, non lo posso lasciare a loro, sono troppo anziani, lei 88 anni, lui 91.
Troppa responsabilità. Si agiterebbero.
Rientrati a Milano è riuscito a dirmi: perché non vai in pensione così torniamo ad Ostuni?
– Non hai capito, Ostuni va bene per la villeggiatura, ma io sto bene a Milano, a maggior ragione per pensare al tuo futuro.
Il futuro. La questione non è per niente definita. Noi abbiamo carpito questo momento.
La nostra situazione è vincolata a una questione geopolitica, alla guerra, che naturalmente spero finisca presto.
Sto facendo tutto quello che mi chiedono, ma non ho ancora capito come devo muovermi per cercare di tenerlo qui con me. Che sia adozione, che sia affidamento, che sia quello che è possibile fare.
Devo quindi trovare una buona consulenza per non ritrovarmi impreparato.
Al momento ho una tutela dal tribunale, per motivi bellici, ma spero che la storicità del nostro rapporto possa contare.