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Intervista a Giovanna Campani, autrice di “Madri Sole”

scritto da Gisella Bassanini

Dopo aver recensito in un articolo precedente il testo di Giovanna Campani, uscito lo scorso anno per i tipi di Rosenberg & Sellier, abbiamo pensato che sarebbe stato interessante approfondire con l’autrice alcuni temi.

Ne è venuta fuori una lunga e “densa” chiaccherata che riportiamo qui, ringraziando Giovanna Campani per l’attenzione concessaci.

Nel libro “Madri sole” lei traccia un percorso dentro la monogenitorialità al femminile. Diversi sono i temi affrontati, ne riprendiamo alcuni. Un primo aspetto riguarda la rappresentazione sociale della monogenitorialità: un fenomeno non irrilevante (coinvolge il 10% delle famiglie italiane), eppure non se ne parla a sufficienza, forse per una resistenza (anche e soprattutto culturale) che esiste nell’affrontare questo tema. Perché vi è tanto evidente disinteresse o incapacità da parte della politica e delle istituzioni a farsi carico di questa fetta di società italiana?

Come cerco di documentare nel libro, la monogenitorialità femminile è sempre esistita e le donne hanno gestito da sole le famiglie con grande forza e fatica. Nella parte storica del libro riporto dati e riferimenti sulle famiglie monogenitoriali, costituite principalmente da vedove, ma non solo. Anche nel caso di alcune categorie professionali, i figli venivano sistematicamente allevati da madri sole. In Gran Bretagna, nei secoli XVI e XVII, quando diventa una potenza navale, per esempio, i padri partivano ed erano le madri ad occuparsi dei figli e per lungo tempo. Anche nel passato, sebbene il divorzio non fosse ammesso legalmente, vi erano coppie che si separavano, molte di più di quanto non si pensi, come dimostrano diversi studi storici. Insomma le famiglie monogenitoriali, le madri sole c’erano ma non se ne parlava. Faceva parte dell’ipocrisia del sistema. Tranne quando si trattava di esaltarle come vedove di guerra o di stigmatizzarle come ragazze madri. Oggi si è costruita questa nuova categoria, la single mother, che se da una parte evita la discriminazione tra la vedova onesta e la peccatrice madre nubile, dall’altra mantiene però un carattere di problematicità, come vogliono dimostrare diversi studi, soprattutto psicologici, ma anche sociologici, sulla cui scientificità ci sarebbe però da discutere. Non dimentichiamo che, soprattutto negli Stati Uniti, la categoria delle sigle mothers serve per identificare un fenomeno sociale considerato problematico dai servizi sociali, un fenomeno che coinvolge soprattutto le donne afro-americane le quali, per diverse ragioni anche di natura storica, spesso si ritrovano con lavori precari e malpagati, con padri deresponsabilizzati che a un certo punto se ne vanno lasciandole sole a crescere i figli. Anche in Italia la famiglia monoparentale è vista ancora oggi da una parte dei nostri servizi sociali come qualche cosa di problematico, anche se va detto che questo accade sempre meno perché la percezione del fenomeno sta cambiando. La convinzione che la monoparentalità in sé sia un handicap per la futura vita adulta dei figli, producendo una sorta di mother-blame (accusa alla madre) è profondamente negativa per il benessere sociale delle famiglie e dei figli. Essa inoltre, come cerco di dimostrare nel libro, non trova nessuna evidenza nell’esperienza storica.

Si citano spesso gli altri paesi europei. Diventa difficile nella realtà fare anche solo dei paragoni tra noi e loro: ci sono infatti forti diversità dal punto di vista legislativo, il sistema del welfare è diverso, all’estero ci sono sussidi per genitori single che qui neppure ci sogniamo. Cosa possiamo imparare delle politiche e dalle esperienze sviluppate negli altri paesi europei?

Esistono importanti differenze tra i paesi europei. C’è un blocco di paesi che sono quelli dell’Europa del nord che hanno una grande attenzione all’eguaglianza e direi ai diritti di genere (sono i cosiddetti paesi “women friendly”). Là il welfare risponde ai bisogni dell’individuo e dei figli e non si basa sulla centralità del padre “breadwinner”, caposaldo economico della famiglia come in Europa del sud. Le madri sole in Finlandia, Svezia, Norvegia, Danimarca hanno sostegni molto maggiori. Certo, questo si basa anche su diverse mentalità e culture. Un interessante esempio è l’Islanda dove c’è una tradizione di maternità al singolare che non viene stigmatizzata, e questo anche per la loro tradizione storica: all’origine vi era una cultura basata su una relativa uguaglianza di genere (le donne partecipavano alle assemblee) e poi ogni bambino è il benvenuto in un’isola così poco popolata! Ogni paese presenta le sue specificità culturali che influenzano il sistema di welfare. Esistono anche delle differenze all’interno di uno stesso paese. La Francia, per esempio, si muove tra due modelli familiari differenti: quello rappresentato dal popolo di Parigi e, in generale, dell’Ile de France, più aperto (il concubinato era frequentissimo nel XVIII e XIX secolo) e quello più conservatore, delle aree rurali. Si è visto, in questo ultimo periodo, che le reazioni contro il matrimonio omosessuale sono state fortissime, proprio da parte di forze che si rifanno ad un modello familiare conservatore. Comunque, la condizione della famiglia monogenitoriale in Francia è molto più favorevole che in Italia, per via dell’incoraggiamento alla natalità (condiviso da tutte le forze politiche). Per questo, gli aiuti all’infanzia ed alle madri sono consistenti…

Il processo di profonda crisi che sta sconvolgendo il sistema del welfare sta lasciando sempre più sole le famiglie nell’importante compito di cura e crescita dei figli. Alcune famiglie sono a rischio più di altre -lei ricorda nel libro- e tra queste proprio le famiglie monogenitoriali. Eppure, l’Italia – ed è sempre lei a scriverlo – è tra i paesi che meno spendono per la famiglia nonostante fenomeni come la femminilizzazione della povertà e l’impoverimento delle famiglie, in particolari monoparentali.

Già, in Italia si parla tanto di famiglia e poi non si spende per aiutare chi una famiglia cerca di farla. Il problema è legato sia all’inadeguatezza della classe dirigente (di cui oramai tutti sono coscienti, basta vedere i risultati delle ultime elezioni) sia ad un insieme di fattori storico-culturali: il tipo di welfare, il ruolo della Chiesa, il mercato del lavoro… Rispetto alla questione della famiglia e della monogenitorialità in particolare, in Italia, si è preferito nascondere la testa come lo struzzo. I cambiamenti nei modelli familiari non sono stati presi in considerazione. Manca una lettura approfondita sul fenomeno della monogenitorialità (dati, inchieste), ma più in generale sulle trasformazioni della famiglia. Oggi un modello familiare unico non esiste. Eppure la politica non se n’è accorta.

Quello che dobbiamo fare ognuna/o a partire dal proprio ruolo ed esperienza è di contribuire a costruire un pensiero pubblico, anche politico, su questo fenomeno.

È assolutamente indispensabile. Bisogna cambiare completamente l’approccio che hanno i servizi rispetto a ciò, bisogna costruire un welfare che permetta a una madre sola la compatibilità maternità-lavoro. Si tratta di una doppia battaglia: una che riguarda il welfare materiale, l’altra che ha a che fare con la stigmatizzazione che ancora c’è nei confronti delle madri sole che si accompagna alla preoccupazione che questa “famiglia incompleta” (come alcuni sociologi l’hanno chiamata in passato) sia portatrice di devianza. Questa lettura negativa della monogenitorialità é discutibile non solo per gli effetti che può avere nella pratica dei servizi, ma anche dal punto di vista scientifico: basta vedere su quali dati si appoggiano la maggioranza degli studi che sostengono un nesso tra devianza dei figli e famiglia monogenitoriale. Penso che, dietro questi studi, vi sia in fondo la preoccupazione per il venir meno di un ordine patriarcale. Il fatto che dietro la stigmatizzazione della famiglia monogenitoriale femminile vi sia la paura di una crisi del patriarcato, è suggerito da un curioso fenomeno, messo in luce da un’autrice americana, che cito Sidel, R. (2006). Unsung Heroines. Single Mothers and the American Dream. Berkeley, CA: University of California Press. Sidel sostiene che la famiglia monogenitoriale maschile non è mai stata stigmatizzata come quella femminile. Anzi, vi è una sorta di orgoglio ad avere un padre che si prende cura dei figli. Anche qui c’è un disequilibrio, spesso l’istinto è quello di dire “che bravo papà che si occupa dei figli” mentre la madre la si accusa di non essere riuscita a tenere unita la famiglia. Pertanto, sono le relazioni di genere che stanno alla base delle diverse valutazioni, e vanno anche queste considerate con attenzione.

Ritorno brevemente al concetto di “famiglia incompleta”, appellativo con il quale alcuni sociologi solo pochi anni fa definivano la famiglia monogenitoriale. Questa idea di “incompletezza” è carica di giudizio e della volontà di attribuire a questo tipo di famiglia un carattere di anomalia, di fragilità, di marginalità, di pericolosità per l’ordine sociale.

È curioso come i sociologi siano caduti in una vera e propria trappola concettuale, facendo coincidere famiglia con coppia. Ora, se è vero che in Occidente la famiglia veniva fondata sul matrimonio – quindi sull’unione di una coppia – sul pianeta esistono una varietà di famiglie, per le quali la coppia non è necessariamente l’elemento fondante. Hai letto la terrazza proibita di Fatima Mernissi? Coesistono sotto uno stesso tetto famiglie monogamiche e poligamiche in un modello di famiglia allargata. Ma anche in Occidente, se il matrimonio fondava la famiglia, la coppia poteva poi essere assunta all’interno di una famiglia allargata dove gli anziani -il capofamiglia anziano e la suocera- avevano un ruolo fondamentale. Hai letto la famiglia dell’antiquario di Carlo Goldoni? Il nucleo è il vecchio Pantalone che gestisce le diverse coppie dei figli – coppie che peraltro coesistono. Come si fa a considerare “incompleta” la famiglia monogenitoriale? E che vuol dire incompleta? Il riferimento è un modello familiare che è stato costruito durante un breve periodo storico e che corrisponde ad un certo modello di Stato nazionale, di welfare: il modello del breadwinner. Rispetto alle grandi visioni della società che ci hanno tramandato i padri della sociologia mi sembra una visione molto limitata. Ed in ogni caso, da queste famiglie incomplete sono usciti Caravaggio, Ugo Foscolo, Casanova, Alexandre Dumas, Emile Zola, Saint Exupéry, Willy Brandt, Bill Clinton e Barak Obama… per essere delle famiglie incomplete… direi che non c’è male.

 

foto di Giovanna Campani (per gentile concessione)

autore

Gisella Bassanini

Docente e ricercatrice, ho una figlia, Matilde Sofia. Coordino le attività di  Smallfamilies aps di cui sono fondatrice e presidente.  Seguo in particolare  l’area  welfare e policy, le questioni legate all’abitare e per il nostro Osservatorio mi occupo dello sviluppo  di  progetti di ricerca sulle famiglie monogenitoriali e più in generale sulle “famiglie a geometria variabile”.

Abito a Milano (città che amo) e, dopo la laurea in architettura al Politecnico di Milano,  ho trascorso molti anni  impegnata  in università (dottorato di ricerca, docenza, scrittura di libri) e nella libera professione (sviluppo di processi partecipativi,  piani dei tempi e degli orari della città, approccio di genere nella progettazione architettonica e nella pianificazione urbana). Ora insegno materie artistiche nella scuola pubblica e continuo nella mia attività di studio e ricerca in modo indipendente. La nascita di mia figlia nel 2001 ha trasformato profondamente (e in meglio) la mia vita, nonostante la fatica di crescerla da sola. Da allora, il desiderio di fare qualcosa per-e-con chi si trova a vivere una condizione analoga è diventato ogni giorno più forte. Da questa voglia di fare e di condividere, e dall’incontro con Michele Giulini ed Erika Freschi, è nata Smallfamilies aps, sintesi ideale della mia storia personale e del mio percorso professionale.

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