È l’ultimo dell’anno. Sono sola. Mia figlia è a 10.000 chilometri di distanza.
Potrei dirmi che sono serena, tranquilla, potrei dirmi che posso anche andare a dormire prima del brindisi. Potrei anche partecipare a una cena tanto per fare, tanto per stare, tanto per passare la serata. Potrei recriminare e accusare la vita, gli eventi, Dio, per il fatto di sentirmi sola.
Però.
Però, ieri sera, mi domandavo come sia possibile dire qualcosa a una persona di ottant’anni che vive radicata sulle sue posizioni e che, dall’alto dei suoi anni che peraltro detesta, sostiene con fermezza di avere raggiunto un punto fermo, uno sguardo definitivo sulla sua vita. Una persona che conserva inalterati tutti i suoi rancori e risentimenti.
Che cosa si può dirle? Che bisogna esercitare le virtù? Cercare la via della pazienza, dell’umiltà?
Come si può dirlo a chi si sente “arrivato”?
Mi sono risposta così: quello che bisognerebbe dire è proprio che non ci si può mai dire “arrivati”, che non ci si ferma mai su un punto, neppure quando si muore. Non siamo in grado di darci spiegazioni definitive, non possiamo pensarci padroni del nostro destino, mai. Una possibile evoluzione c’è sempre. E la speranza è l’elemento che può sopravvivere a tutto, anche nel deserto. È la pianta più forte. Non a caso è anche l’unica cosa che rimane sul fondo del vaso di Pandora, l’ultima a morire.
Il fatto che questa persona abbia ottant’anni è soltanto un’aggravante. Quante sono le persone che si sentono in questo modo? Tante, di tutte le età. Quante sono le persone che io incrocio quotidianamente nella mia vita e che si sentono in questo modo?
Purtroppo tante. Di tutte le età. Persone che si sentono vittime della vita, del destino, delle congiunture, degli altri, ma che in realtà, come tutti, potrebbero scrivere la propria personale enciclopedia: “Tutto quello che ho sempre voluto fare ma che non ho mai fatto”.
Quante volte io stessa mi sono sentita in questo modo? Tante.
Quando ci si sente in questo modo, quando si rimanda e si dice: “so che cosa dovrei fare ma lo farò domani” si sta lasciando spazio a qualcosa che non è noi. Domani è la voce della paura. Oggi è la voce della scelta. E scegliere è l’unico modo per plasmare il proprio destino. E agire la speranza.
Quindi oggi, tra San Silvestro e Capodanno, che cosa si può fare se non ci si sente proprio dell’umore giusto per affrontare botti e brindisi? Si può scegliere di non adattarsi ai rituali più o meno comunemente diffusi senza patire le conseguenze della propria scelta?
Si può anche stare soli? Soli e sereni? Si può.
Ma è difficile. E bisogna avere la forza di guardarsi dritto nel profondo.
Nella convinzione di stare scegliendo, in realtà spesso si sta recitando la parte di quello/a forte, superiore, “arrivato”. Spesso non si è davvero agito una libera scelta, appunto, ma ci si è adeguati a una finzione, al copione scritto da chi ha deciso di vivere senza speranza.
Se quel “soli” sottintende “essere soli” con se stessi, ok. Ma se quel “soli” sottintende “sentirsi soli”, allora bisogna fermarsi un attimo e cercare di mettere a fuoco.
C’è un modo colpevole di abitare la solitudine: credersi tranquillo perché la bestia feroce è resa inoffensiva da una spina nella zampa.
Amo Calvino, da sempre. Pensando alla solitudine, mi è tornata alla mente questa sua frase. Ma che cosa mi vuol suggerire? La bestia feroce è chiaro, siamo noi stessi. La bestia feroce va guardata negli occhi, va osservata, considerata. Fingere che non esista, ignorarla, è una tentazione forte, ma è davvero bene non caderci, in questa tentazione, perché questo equivarrebbe a soccombere, a tradirsi. La bestia feroce siamo noi stessi col nostro giudizio e pregiudizio.
Se si sceglie di essere soli, di stare da soli, bisognerebbe davvero avere valutato che la bestia feroce è tranquilla soltanto perché ha una spina nella zampa, ma che in qualsiasi momento può liberarsene, può ridiventare aggressiva, attaccare, colpire. Siamo pronti? Siamo davvero pronti ad essere eccentrici, a prescindere dall’approvazione del resto del mondo e a prescindere dall’approvazione e dal giudizio di noi stessi, a correre il rischio dell’incomprensione, degli altri e di noi stessi? Siamo davvero pronti ad essere soli con noi stessi? Con la nostra bestia feroce? È quello che desideriamo davvero?
Se sì, perfetto. Geniale.
Ma come possiamo essere sicuri che questo sia ciò che desideriamo autenticamente? Dove lo incontriamo, il nostro vero, personale desiderio?
Possiamo farcela, da soli, a incontrarlo, a riconoscerlo?
Io non credo. Io credo che lo incontriamo negli altri, nell’altro, perché l’altro ci fa da specchio, da contenitore e da limite. L’altro ci aiuta a non mettere in atto copioni del nostro passato.
L’altro ci aiuta a diventare responsabili di noi stessi e delle nostre scelte. L’altro ci aiuta ad agire la speranza. La speranza che ci sia sempre una possibile altra opzione. Che la vita non sceglie per noi, ma che noi scegliamo per la nostra vita consapevoli di non essere padroni assoluti, ma di certo attori principali.
Quindi.
Quindi è l’ultimo dell’anno. Sono sola. Mia figlia è a 10.000 chilometri di distanza.
Potrei dirmi che sono serena, tranquilla, potrei dirmi che posso anche andare a dormire prima del brindisi. Potrei anche partecipare a una cena tanto per fare, tanto per stare, tanto per passare la serata. Potrei recriminare e accusare la vita, gli eventi, Dio, per il fatto di sentirmi sola. Potrei al contrario illudermi di essere più forte della bestia feroce, illudermi di averla domata.
Invece la buona notizia è che so di poter scegliere. Scegliere di agire il mio autentico desiderio. Quindi guardare la belva, accudirla, curarla, e liberarla. Dirle arrivederci: ciao, alla prossima, al prossimo incontro. Vai, per ora. Non ti temo, ma non ho voglia di stare sola con te.
Ho invece voglia di andare dritta dove so che sto bene perché c’è quel “altro” che mi corrisponde. L’altro che mi arricchisce, l’altro che mi fa da specchio e che mi restituisce un’immagine di me che mi piace. L’altro che mi fa respirare l’odore della speranza. L’altro che non è necessariamente un fidanzato-amante-marito-compagno. L’altro che sono i miei amici speciali, il motore sotterraneo e il motore cosmico della vita.
Sono una madre cosiddetta single che vive normalmente sola con la figlia che adora. Ma non sono una madre sola. Sono una persona che condivide e che si rifiuta di sentirsi “arrivata” da qualche parte. Sono parte della realtà. E la realtà non è statica, la realtà si muove, evolve, si espande, insieme a tutto l’universo. La realtà ci stupisce, sempre. Se le concediamo di stupirci. Se ci concediamo di Ascoltarla. Se facciamo digiuno dalle parole di troppo e se proviamo a fare esercizio di pazienza.
Auguri. Buon Capodanno e buon 2016. Che i vostri desideri più autentici possano trovare compimento. Nella realtà della speranza.