Lavorare, lavorare, lavorare (si dice) stanca, ma dipende.
Quando mia figlia aveva circa un anno mi trovai nell’urgenza economica non più rimandabile di lavorare. Non avevo molte chance in quel momento, negli ultimi 3 anni avevo vissuto in Australia e avevo perso quasi tutti i miei contatti professionali. Pensai dunque, in prima battuta, di tornare a bussare alla porta della agenzia giornalistica in cui avevo prestato la mia collaborazione alcuni anni prima. Ricordavo bene di aver respirato, in quella redazione, un clima di identificazione abbastanza delirante con la performance lavorativa. Come se le persone assunte potessero davvero fare “uno” con la mission editoriale, con il suo linguaggio, con le mansioni assegnate e con i parametri produttivi pianificati. Ci si aspettava, implicitamente, che le persone non avessero una vita personale extra-lavorativa. Era inoltre lampante che il mio capo fosse workaholic. Amoreggiava con la “sostanza lavoro” fino a tarda serata e spesso riusciva a sfangare anche il week end: sfangare significava per lui riuscire a starsene beatamente in ufficio, sabato e domenica, indispettito unicamente dal pensiero che i suoi collaboratori potessero essere altrove, a buttare la loro vita tra pannolini puzzolenti, riposo improduttivo e insulsi pranzi familiari. Ricordavo infine che in quel posto di lavoro, come in quasi ogni luogo performante della contemporaneità, si faceva largo chi non tradiva inceppamenti, esitazioni, dubbi, fragilità: più volte la mia trasparente mitezza mi era costata arretramenti e trattamenti economici sfavorevoli.
Dunque mi ripetevo con ansia: “Ora che sono madre sola di una figlia piccola, figuriamoci, non mi prenderanno mai e se mi prendono mi daranno due lire”.
Decisi tuttavia di andare a visitarli e la notte precedente mi portò consiglio e mi ispirò. Di primo mattino affidai la bambina ad un’amica, tornai a casa e mi vestii in modo originale, elegante e minimalista. Misi delle scarpe con un tacco molto alto. Mi truccai con precisione e mi incamminai verso l’ufficio. Ero bella quella mattina, anche se esageratamente magra. Arrivata dal mio ex-capo gli spiegai che ero di passaggio in zona e mi era venuta voglia di salutarlo e sapere come andavano le loro attività. Gli accennai anche – inventando di sana pianta – che non avevo più necessità di lavorare, avendo ricevuto l’anno prima una ingente eredità. Ero una donna ricca. Anzi, una madre ricca, soggiunsi volando basso. E oramai ero interessata unicamente ad ingaggi professionali capaci di appassionarmi intellettualmente e culturalmente. Il mio ex capo nascondeva a stento lo stato di fascinazione nel quale lo aveva gettato la mia impertinente “assenza di bisogno”. Il giorno dopo ricevetti una generosa proposta di collaborazione: potevo scegliere tra il part-time e il tempo pieno e i compensi erano, in entrambi i casi, più che dignitosi.
Come previsto in quel luogo di lavoro respiravo male. I miei colleghi erano giovani schiavi che avevano abboccato al grande il mito del giornalismo come posizionamento socio-professionale “cool”: come se “firmare l’informazione” ed entrare da cronisti nella babele contemporanea potesse risparmiargli il mestiere di vivere! Bè, ad alcuni il lavoro e lo status risparmiano la vita, in effetti. Ma poi la vecchiaia presenterà loro il conto.
Decisi di resistere fintanto che non si manifestassero altre possibilità. All’inizio fu penoso stare lontano dalla bambina, anche solo 5 o 6 ore al giorno. Inoltre il mio capo era molto infastidito, col passare dei mesi, dal mio part-time. Si era evidentemente pentito di avermi concesso questo anomalo privilegio. Una mattina mi consigliò di riprendere il tempo-pieno e di farlo per mia figlia: aveva letto da qualche parte che la separazione dalla madre stimola la crescita dei bambini piccoli! La mia antipatia nei suoi confronti saliva alle stelle e nel giro di un anno mi portai fuori di lì.
Un mondo immenso si dischiudeva. Fiducia.