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“Madri sole” alle prese con la propria madre: aiuti, criticità, confini

scritto da Benedetta Silj

Se siamo divenute madri siamo state, prima di tutto, figlie. E se è vero che differenziarsi psicologicamente dalla propria madre fa parte del lungo cammino di maturazione di ogni donna, è pur vero che questo cammino esigerebbe un particolare scatto evolutivo quando una donna diviene, a sua volta, madre. Tanto più se, divenendo madre, resta “da sola”: la sopravvenuta assenza della figura maschile con cui confrontarsi in quanto donna e con cui crescere i figli in quanto madre, infatti, può irrigidire l’unilateralità della linea femminile di discendenza e impedirle di percepirsi e progettare il futuro proprio e dei figli con fiducia e apertura all’altro da sé. Altro da sé che va inteso non solo come “figura paterna in carne ed ossa” perché, come sappiamo, un padre biologico (o un nuovo compagno – padre adottivo) può essere “presente” come ruolo ma non svolgere alcuna efficace funzione di “terzo” vigile, disponibile e cooperante. L’apertura all’altro da sé, dunque, va intesa simbolicamente come alternativa alla claustrofilia materna e anche come antidoto alla tentazione di espellere, aprioristicamente, altri sguardi, altre braccia, altre fonti di ispirazione e di sostegno, maschili o femminili che siano.  Si tratta, quindi, per una madre sola, di riuscire a mantenersi aperta a quella “ulteriorità” di mondo che esonda il quadro endogamico delle origini: scegliendo e coltivando una rete sociale di riferimento per sé e per il proprio bambino, non perdendo di vista i propri obiettivi di autonomia economica e lavorativa, individuando le più idonee figure amicali di supporto affettivo e quotidiano, difendendo il proprio desiderio di pensare in prima persona e di contribuire a svolte evolutive nella catena transgenerazionale. Un compito enorme non esente da crisi e tuttavia una direzione etica che può orientare costruttivamente la vita delle madri sole.

La neotenia umana, come sappiamo, implica una lunghissima e assoluta dipendenza del bambino dalle figure accudenti: è vero, dunque, che la madre deve fornirgli per molto tempo una cura personalizzata e costante.  Rispetto a tale fase della maternità, bellissima ma estenuante, è chiaro che il poter contare sull’aiuto di una nonna affettuosa, rispettosa e presente (Donald Winnicott direbbe “una nonna sufficientemente buona”) può costituire una grande risorsa per ogni donna e in particolare per una madre sola. Tuttavia il rapporto con la propria madre non è sempre, sul piano psicologico, così fluido e supportivo come si vorrebbe credere. Non si tratta, ovviamente, di mettere in dubbio il carattere di unicità irripetibile del legame affettivo madre-figlia ma di divenire consapevoli della sua complessità nei vari passaggi di vita. E anche di imparare a decifrare la singolarissima congiuntura familiare e biografica in cui ogni volta ci si trova inscritte. Molte idealizzazioni (e demonizzazioni) culturali, inoltre, inchiodano le figlie a una adesione acritica allo strapotere della parola materna su qualsiasi argomento e in modo particolare in tema di “allevamento dei bambini”. Forse sarebbe più realistico, e anche meno infantilizzante per la donna che dà alla luce un figlio, concepire il rapporto con la propria madre come un universo affettivo imprescindibile ma innervato anche da dinamiche ambivalenti e non sempre favorevoli al più libero dispiegamento della propria femminilità e della propria generatività (biologica e non solo). Per valorizzare veramente la presenza di una nonna positiva (o per limitarne l’impatto, se positiva non è) sarà necessario, infatti, che i confini e l’avvicendamento tra le generazioni femminili siano sufficientemente chiariti e onorati.  Vediamo allora tre esempi di combinazioni “difficili”, e non così rare, della costellazione relazionale “madre sola – figlio o figlia – nonna materna”. Si tratta di tre esempi narrativi che proprio in quanto “vignette” possono aiutarci a distinguere alcune dinamiche psicologiche e comportamentali. Ma anche a intravedere un cammino possibile di consapevolezza e di creatività per la “madre sola alle prese con la propria madre”.

Se la nonna è di grande aiuto pratico ma… molto ingombrante

Liliana è una giovane madre, il suo compagno non ha voluto saperne della paternità ed è scomparso.  Lei, a causa della gravidanza, ha perso il lavoro e dopo il parto è tornata a vivere a casa di sua madre con il bambino. E’ stato estraniante trovarsi di nuovo, dopo dieci anni, nella propria stanzetta di adolescente ed essere lì come madre, come madre sola. Certo Liliana si considera privilegiata al confronto di altre donne che, nella sua stessa condizione, non possono contare sulla famiglia di origine né durante la gravidanza né dopo il parto e devono perciò inventare mille strategie per fare fronte a tutto.

In questo caso, invece, al “tutto” ci pensa sua madre, la neo-nonna: prepara da mangiare, riordina la casa, fa la spesa, sa come ci si comporta con il neonato se non dorme o se ha la colica, sa a quale pediatra rivolgersi e quanti strati di lana devono ricoprirlo, sa quando deve essere svezzato, quando gattonare, quando camminare e quando parlare. Piano piano, impercettibilmente, Liliana scivola nella posizione di “sorella maggiore” del proprio bambino. “Non posso mica sostituirmi a te”! sussurra l’anziana signora a Liliana mentre le sfila il pupo dalle braccia, lo posa sul fasciatoio e si profonde in deliziati gridolini mentre lo cambia. “Del resto non hai mai saputo scegliere i fidanzati”, le spiega più tardi a cena mentre il bambino si è finalmente addormentato. “Hai sempre fatto di testa tua ed ecco qua, ora le conseguenze ricadono su di me… Cosa?! Vorresti uscire? a quest’ora? ma ti rendi conto che qui c’è un bambino? Vai, vai, tieni, prendi 20 euro, non voglio che vai in giro senza un soldo”.

 Che può fare Liliana? Come tenere insieme la gratitudine verso la propria madre e la responsabilità verso il proprio bambino, verso la propria adultità, verso la propria intelligenza? Fortissima potrebbe essere la tentazione di fermarsi, cedere, abdicare, “saltarsi” come nuova generazione e sottoscrivere, invece, una delega permanente alla propria potentissima madre.

Se la nonna è di scarso aiuto pratico e… molto giudicante

Alessia vive con i suoi due bambini. Si è separata dal compagno poco dopo la nascita del secondo figlio che ha ora quattro anni. La primogenita ne ha otto.  Il padre provvede economicamente in modo saltuario e insufficiente, non vede i figli con regolarità, spesso dimentica i loro compleanni. Alessia lavora, ha un contratto a tempo indeterminato e riesce, acrobaticamente ma efficacemente, a gestire il cosiddetto work-life balance.  Ha cambiato diverse baby-sitter ma da tre anni ne ha trovata una seria e affidabile. Ha anche un nuovo compagno ma non se la sente, per il momento, di presentarlo ai suoi bambini, preferisce attendere che la relazione si stabilizzi. In questo quadro encomiabile si è aperta tuttavia una crepa segreta, un malumore enigmatico che riguarda il rapporto con sua figlia: i sentimenti teneri che questa ragazzina “non” le ha mai suscitato e quelli vagamente ostili, invece, che le attraversano il corpo come fitte infide e che subito cerca di dimenticare. “Attenta a non viziarla” le aveva detto tante volte sua madre al telefono nei primi mesi di vita della nipote. “Se ti alzi ogni volta che la senti piangere diventerai la sua schiava. I bambini vanno lasciati piangere. Così imparano a essere autosufficienti”. Sua madre vive negli Stati Uniti da dieci anni, con il suo secondo marito, e con Alessia si vedono su Skype; ma per via dei fusi orari non è così semplice trovarsi. Si sono incontrate tre volte da quando è nata la prima figlia e tutte e tre le volte a New York.  Alessia, ogni volta, arriva con i suoi due bambini e con un desiderio infinito di riabbracciare la madre, di riceverne lo sguardo, la stima, l’approvazione. “She is getting too fat”, osserva la nonna, in inglese, guardando la nipote di sottecchi e poi la propria figlia diritta negli occhi. “Se ingrassa dipende da te, sai? Devi cambiarle alimentazione. Ma tu non sai dire ‘no’, per te educare i figli significa accontentarli in tutto e per tutto, non riesco a capire da chi hai preso questa debolezza di carattere. Forse da tuo padre”.  Alessia si guarda intorno, l’appartamento della madre è al quarantottesimo piano con enormi finestre sull’Hudson River, il salotto tirato a lucido e perfettamente ordinato.  Osservando la sua bambina, seduta sul divano con uno sguardo inespressivo, si chiede se avrà udito o meno quel che la nonna ha appena detto di lei, su di lei, contro di lei.

 Cosa può fare Alessia? Come tenere insieme l’anelito antico verso una madre idealizzata che la delude puntualmente e la sua difficoltà a sintonizzarsi affettivamente con la propria figlia? Fortissima potrebbe essere la sua tentazione di conformarsi allo stile gelido da cui proviene, di rendersi sempre più abile nell’arte del non-sentire alimentando l’illusione di riuscire a compiacere, in un futuro giorno glorioso, la sua incontentabile madre lontana.

Se la nonna non c’è più… ma si avverte la sua eredità  

“Io sono solo, gli altri sono tutti” pensa il protagonista della celebre opera di Dostoevski Memorie del sottosuolo.  Una frase che condensa il sentimento abissale di non-appartenenza che può pesare sul cuore di chi ha incontrato il dolore della perdita ma si confronta con stereotipi sociali apparentemente fortunati e inscalfibili. E’ un sentimento che, a qualche grado, può albergare anche nell’animo di bambine e adolescenti che abbiano perso la mamma prematuramente e che si paragonino alle compagne esentate da un simile lutto.  Un sentimento che può riattivarsi con forza nella vita adulta quando, divenendo a loro volta madri, sentono quel minaccioso vuoto alle spalle e si rendono conto che il proprio figlio non conoscerà mai l’amore di una nonna.

Dina, 37 anni, attende l’uscita del suo bambino davanti al cancello della scuola primaria appena iniziata. Molte altre madri sostano lì in piedi, c’è anche qualche padre e delle signore attempate con l’aria da “nonne”. Dina spera di stringere al più presto un contatto cordiale con le famiglie dei compagni di classe di suo figlio. Per lei, rimasta orfana di entrambi i genitori e oggi madre sola di un bambino di 6 anni, è fondamentale costruire una rete di relazioni che compensi la dimensione scabrosamente esigua del suo nucleo: conta e riconta sono sempre e solo due, lei e suo figlio! Il padre del bambino, infatti, dopo la separazione, ha voltato a entrambi le spalle. Dina deve provare a mettere in atto una invenzione epocale, oggi non impossibile ma ancora molto difficile da realizzare: creando una alleanza intergenerazionale e una solidarietà tra adulti non necessariamente fondata sulla parentela di sangue; ma basata, ottimisticamente parlando, sulle “affinità elettive”, sulla condivisone di valori incarnati, sul piacere di essere vicini e umani nella differenza. Una sfida etica che sfiora l’utopia e che talvolta, quando la rete sociale si eclissa, getta Dina in uno stato d’animo scorato: “Io sono sola, le altre sono tutte” potrebbe dire, come Dostoevski, in certi frangenti. Per esempio quando si avvicina il Natale. “Tanti auguri Dina, ci vediamo dopo le feste!” esclamano le altre mamme l’ultimo giorno di scuola mentre si riversano a grandi passi verso il supermercato dove acquisteranno ingenti quantità di cibo perché, si sa, “il 24 vengono i miei, il 25 con i nonni paterni, ho sempre il terrore che il cibo non basti…”. Dina sa bene di non correre questi rischi. Suo figlio mangia come un uccellino; e un menù tradizionale sarebbe sempre troppo per sé sola considerando che insieme, finora, non hanno mai finito un pandoro prima di febbraio. Già. A chi si può rivolgere, e chi può ricevere, un invito per il pranzo di Natale, se non si è “garantiti” da un legame di stretta parentela?  Se il suo bambino poi, fino a tre, quattro, cinque anni, sembrava comunque beato nel godersi la mamma tutta per sé in qualsiasi giorno dell’anno, ora che entra nell’ambiente scolare registra, un po’ alla volta, che a casa sua mancano le voci, i nomi, gli scambi multipli e i gesti “opportuni” del gruppo familiare esteso. Per grazia ricevuta, però, Dina ha avuto una madre “sufficientemente buona”. Questo significa che continua a trasmetterle fiducia, anche se non c’è più, anche se – per ora e suo malgrado –  lei e il suo bambino restano tendenzialmente ai bordi delle consuetudini collettive. “Non riesco a invidiare le famiglie tradizionali solo perché numerose” confida un giorno Dina alla sua terapeuta. “Alcune madri ‘felicemente coniugate’ non sono affatto felici e meriterebbero attenzione. Sto comprendendo, e spero di trasmettere a mio figlio, quello che mia madre ha insegnato a me: quale che sia la nostra condizione di esistenza essa è comunque e sempre fragile, amabile e degna”.

 Cosa può fare Dina? Come gestire il vuoto lasciatole dentro e fuori dai lutti familiari? E come gestire questo vuoto senza rinunciare a costruire nuovi e inediti legami amicali e sentimentali che portino se stessa e il figlio oltre il passato?  Fortissima potrebbe essere la sua tentazione di viversi come una vittima della malasorte, di coltivare rancore verso le famiglie “apparentemente” sazie, di rinunciare a credere nella inesauribile e provvidenziale eredità dell’amore.

Poche note, non per concludere ma per aprire

Abbiamo posato brevemente lo sguardo su tre frammenti narrativi, esemplari di madri sole alle prese con la propria madre, tre scorci di vita tra innumerevoli altre variazioni possibili per età, personalità e contesto. Cosa hanno in comune queste tre istantanee? Prima di tutto mostrano il movimento della discendenza e della trasmissione (anche psicologica) che lega una generazione all’altra. In secondo luogo rivelano alcuni rischi che corre ogni madre, e in particolare ogni madre sola, rispetto all’eredità matrilineare. Senza madre non c’è bambino, potremmo dire, ma di sola madre (e nonna materna) il bambino e la bambina non possono crescere: devono inscriversi nel più vasto tessuto sociale che accoglierà la loro esistenza e dovrebbero essere aiutati in questo cammino. Ma chi aiuta le madri sole nell’accompagnarli? La discriminazione che le relega all’isolamento sociale è ancora molto diffusa anche se dissimulata in formalità quotidiane politically correct.  Non credo, però, che sia una buona idea immaginare le madri sole come una “categoria disagiata” che ha soltanto bisogno di supporto. Forse si potrebbe iniziare a vederle come soggetti che stanno sperimentando forme nuove, e storicamente necessarie, della coesistenza umana.  Soggetti, quindi, che hanno e avranno qualcosa da donare, qualcosa che potrebbe aiutare tutte le madri, anche quelle “non sole” e talvolta assai “male accompagnate”.

 

Immagine:

Three, disegno di Monica Incisa©

per gentile concessione

autore

Benedetta Silj

Sono analista biografico a orientamento filosofico (www.sabof.it) e ideatrice, con Carla di Quinzio, dei due Sportelli per "madri sole" e per "padri soli", iniziativa nata in collaborazione tra Philo, Sabof e Smallfamilies aps. Per questo sito scrivo consigli/interventi/risposte/ per l'area "Corpo-Spirito-Mente".

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