I monogenitori d’Europa somigliano molto a quelli dell’Italia, almeno nei numeri: nel 2018 le famiglie monoparentali con almeno un figlio convivente di meno di 25 anni erano circa il 15% di tutti i nuclei familiari nell’UE-28 (si va dal 29,33% della Danimarca al 5,58% della Croazia, passando per il 9,52% italiano e cioè quasi una famiglia su 10). A livello linguistico e di percezione, anche in Europa le definizioni cambiano un po’ come da noi, così come abbiamo raccontato nel post dedicato al concetto e definizione di monogenitori del nostro Paese
Un report del Parlamento Europeo dello scorso novembre (“The situation of single parents in EU”, 2020) conferma che i genitori unici, anche in Europa, possono essere definiti in modi molto diversi tra loro e che la definizione più comune è quella che considera il genitore unico come “quello che vive con uno o più figli, senza un partner o coniuge conviventi, ma che può convivere con altri familiari come fratelli o genitori” il che vuol dire che, stando questa definizione, un genitore unico può avere un partner purché non convivente. Come quella comunemente in uso in Italia, quindi, anche questa definizione di genitore unico, che è quella da cui partono tutte le analisi comparative o i report condotti e redatti nell’ambito dell’EU, non consente di distinguere le diverse “unicità”, che restano tutte raggruppate sotto un’unica definizione. Allo stesso modo, anche gli indicatori sulla monogenitorialità disponibili presso l’Eurostat non consentono di identificare i genitori unici come categoria a sé stante in quanto si riferiscono genericamente a “genitori unici con figli” senza dare altre indicazioni al fine di identificare l’origine della “unicità” e/o se quel genitore sia genitore biologico o sociale di quel/quei bambino/i, unico ab origine oppure no.
Tirando le somme, può dirsi quindi che, allo stato, né in ambito italiano né nel più ampio ambito europeo, le famiglie composte da un genitore unico nel vero senso della parola possono godere di una tutela specifica, fatta di politiche specifiche derivanti dalla consapevolezza delle diverse esigenze e fragilità che questo tipo di famiglia presenta rispetto, per esempio, ad una “famiglia separata” in cui ci sono pur sempre due genitori, due rami familiari e, spesso, due stipendi.
Per tutte le ragioni accennate, sarebbe quindi più che mai utile oltre che opportuno riempire questo vuoto di tutela, passando per un riconoscimento linguistico che, come tale, porterebbe con sé il riconoscimento sociale dei genitori unici e imporrebbe un cambiamento culturale nel modo di affrontare le politiche della famiglia o, più correttamente, delle famiglie.
Tornando allo studio del Parlamento Europeo del novembre scorso, vale la pena accennare alle due interessanti conclusioni che da esso possono trarsi: la prima è che le famiglie con genitori unici stanno diventando in Europa sempre più numerose, e ciò sia che le si guardi dal punto di vista del numero dei bambini che crescono con un genitore unico, sia che si consideri il numero di famiglie con bambini ove è presente un unico adulto, sia che si consideri la prospettiva di genere del numero di famiglie con bambini in cui vi siano donne sole o uomini soli. Questi dati sono confermati da tutti gli studi sul tema fatti in Europa. La seconda conclusione è che la monogenitorialità è un fatto di genere, considerando che la stragrande maggioranza dei genitori unici (oltre l’80%) è costituita dalle madri.
Lo studio europeo conferma quello che pure vediamo nel nostro paese e cioè che una delle maggiori criticità delle famiglie con genitori unici è la mancanza di una seconda fonte di reddito e di cura; questo, da una parte, incrementa la necessità per il genitore unico di avere un maggior reddito o comunque maggiori entrate per mantenere in modo adeguato la famiglia; dall’altra, aggrava le problematiche relative al bilanciamento tra famiglia e lavoro, in modo particolare se i bambini sono ancora piccoli. E quest’ultimo aspetto è particolarmente evidente in una prospettiva di genere: se le donne nelle coppie si occupano in modo quasi esclusivo della famiglia rispetto agli uomini, sacrificando il tempo da dedicare al lavoro, lo stesso accade, in modo particolarmente accentuato, tra i genitori unici che – come detto – sono per la stragrande maggioranza donne. È altresì evidente, per tornare alla domanda che ci siamo posti all’inizio (da togliere se dividiamo il post in due), che tali criticità sono diverse nel caso di “vero” genitore unico (e cioè nelle famiglie in cui non esiste perché mai esistito o perché “sparito”).
L’Europa ci dice anche un’altra cosa (che pure già sappiamo!) e cioè che le politiche non sono minimamente adeguate alla realtà delle famiglie monoparentali e ciò si spiega, secondo il report citato, con il fatto che le politiche stesse si rifanno ancora ad un modello di famiglia tradizionale con un un capofamiglia e una divisione del lavoro tra uomo/marito/padre e donna/moglie/madre che, oggi, sempre più spesso, non trova riscontro nella realtà; si pensi alle politiche che prevedono lunghi congedi parentali (solo per le madri o comunque sfruttati prevalentemente da queste); ai servizi per la cura dell’infanzia molto spesso inesistenti o costosi; ai sistemi di cash-for-care o di tassazione congiunta: tutti interventi guidati da una medesima logica che di fatto svantaggia in particolare le madri e il loro posizionamento nel mondo del lavoro essendo politiche che mirano all’incremento del work-life balance limitano e che di fatto penalizzano l’indipendenza finanziaria delle donne rendendole ancora più fragili nel caso diventassero madri single.