Mo Yan è uno scrittore prolifico. Un grande narratore. Nonostante la lunghezza dei suoi romanzi, è capace di tenere sempre desta l’attenzione del lettore. Anche per il fatto che, attraverso il suo scrivere, ci fa conoscere “dall’interno” la Cina. Questo romanzo, 899 pagine nella traduzione italiana di Einaudi, secondo uno stile che si ritrova in molti altri suoi libri, è un complicato e strabiliante affresco delle vicende dei singoli personaggi inserite nella narrazione della storia della Cina.
Qui la storia percorre tutto il Novecento, illustrandone le mutazioni, spesso repentine ed epocali, da un periodo iniziale ancora legato a strutture statali di tipo feudale arrivando alle grandi trasformazioni della fine. Dalla costruzione della ferrovia con maestranze tedesche all’invasione e dominio dei “diavoli” giapponesi, dalla liberazione dai giapponesi operata dall’esercito di Mao alle devastanti e continue “campagne rivoluzionarie” promosse da Mao dopo la conquista del potere. Così si assiste a quei continui capovolgimenti di status delle persone promosse dalle grandi campagne “rivoluzionarie” maoiste (dal Grande Balzo in Avanti, alla Rivoluzione Culturale, alla lotta alla Banda dei Quattro) che comportano soprusi a non finire da parte di chi si arroga via via il potere. Fino ad arrivare a una Cina proiettata nell’assunzione di modelli di tipo occidentale, mediati da quel particolare capitalismo tra stato e privato tipico del comunismo alla cinese, che a noi occidentali rimane in gran parte oscuro.
Il nucleo narrativo principale in questo romanzo è comunque l’amore ridondante, ossessivo, totale e unico, che il protagonista Jintong, ha verso il seno materno nei suoi primi anni di vita e poi, crescendo, verso il seno femminile in genere. Jintong, che significa “Bambino d’oro”, è nato il quinto giorno del quinto mese del calendario lunare del 1939, insieme a una sorella gemella e cieca, Yünü (Fanciulla di giada).
Il diritto al latte della mia ottava sorella era stato da me completamente calpestato. Bastava che quella stupida bambina si avvicinasse al seno di mia madre perché la scalciassi e graffiassi, provocandone il pianto. Ormai sopravviveva nutrendosi di zhou (pappa di riso glutinoso). Le
mie sorelle maggiori erano molto scontente di questo. Perciò, nel corso di quel duro e lungo inverno, il momento del mio allattamento era sempre pervaso da grande ansietà. Mentre la mia bocca succhiava il capezzolo sinistro, il mio spirito già si concentrava su quello destro. Avevo sempre la sensazione che una mano pelosa potesse allungarsi verso il foro del vestito, per stringere il seno temporaneamente abbandonato a se stesso. In preda a questo stato d’animo, cambiavo capezzolo sempre più spesso. Non appena da quello sinistro cominciava a uscire il liquido mi spostavo sul destro, e non appena il rubinetto del destro cominciava ad aprirsi, velocissimo mi spostavo al sinistro. Mia madre era stupefatta, ma poi, osservando i miei occhi azzurri e tristi che guardavano a destra mentre mangiavo a sinistra, indovinava quali erano i miei pensieri. Allora mi baciava il volto con le sue labbra fresche e con tono rasserenante mi diceva: – Jintong, Jintong, tesoro mio. Il latte di mamma è solo per te. Nessuno te lo porta via -. Le sue parole alleggerivano la mia ansia, ma non ero mai del tutto tranquillo, perché pensavo che quelle mani pelose stessero sempre accanto a mia madre, in attesa della buona occasione. (p. 107)
Intorno a questo nucleo della mono ossessione di Jintong verso il latte materno e i seni, nel lunghissimo romanzo si sviluppano una moltitudine di altri temi. Mo Yan ha la grandissima capacità di muovere le fila del suo complesso racconto storico attraverso la vita dei personaggi della famiglia Shangguan e di tutto il villaggio di Gaomi, nella provincia dello Shandong, fittamente popolato da una miriade di personaggi.
Potremmo dire che in questo romanzo, se il protagonista è Jintong, co-protagonista è la madre: Shangguan Lu, figura che nei suoi novantacinque anni è il punto di forza di tutta la famiglia. Una donna che affronta tutte le grandi avversità raccontate, con uno spirito che non si piega mai. Si fa carico, con un marito impotente in tutti i sensi, prima delle sette figlie e poi, rimasta vedova alla nascita dei gemelli, di tutti i nove figli (otto femmine e l’unico maschio) e successivamente della schiera di nipoti che le figlie le affideranno. E’ lei che tiene unita la famiglia in maniera indomita, che sopporta avversità, carestie e miseria senza mai lasciarsi abbattere. E’ la Grande Madre, sempre accogliente e risolutrice di ogni problema. Riferimento e sicurezza per ogni membro della famiglia. Ma, come un contrappasso, questa sua dedizione totale genera non l’unione ma la continua fuga dalla famiglia da parte delle figlie e la dipendenza totale del figlio che non riuscirà mai a diventare un individuo responsabile e autonomo.
Le vere eroine della storia sono le donne della famiglia Shangguan. Cominciando dalla suocera della madre, Shangguan Lü. Anche le otto sorelle sono protagoniste autonome delle loro scelte, tutte tragiche ma con una forza di caratteri “eroici”. Jintong invece è sempre, un incapace ad affrontare la sua vita e a dare sostegno alla madre o alle sorelle. Ma anche gli altri due maschi della famiglia (il suocero e il marito della madre) sono dei pusillanimi, deboli maschi totalmente asserviti al potere della suocera. Quando Shangguan Lu entra nella casa del marito la matriarca padrona è la suocera, despota assoluta della vita dei familiari. Gli uomini, suocero e marito di Shangguan Lu, spariranno presto dal racconto, uccisi dai giapponesi il giorno stesso della nascita di Jintong e della ottava sorella. E anche la suocera, in quel giorno, diventa una vecchia senza più autorità, costretta a cedere il dominio alla nuora. Dalla nascita di Jintong si costituirà, anche formalmente, davanti agli occhi di tutti, una famiglia matriarcale.
Jintong è il figlio maschio così desiderato che, quando finalmente appare, viene come venerato da tutta la famiglia. Dal momento della sua nascita sarà Jintong, in quanto maschio, a catalizzare tutte le attenzioni familiari. In particolare della madre che fino alla sua nascita ha sopportato ingiurie e botte e soprusi di ogni tipo da parte della suocera e del marito, perché non riusciva a mettere al mondo un maschio. Così che il suo desiderio dispotico di nutrirsi del solo latte materno, manifestato da subito anche contro la sorellina gemella, viene dalla madre accettato senza opposizione, almeno per i primi sette anni di vita di Jintong.
Da quando Jintong ha sette anni la madre inizia a fare tentativi nella speranza di togliergli il latte. I suoi tentativi però non vanno mai a buon fine.
Scesi giù dal kang, non avevo ancora aperto del tutto gli occhi che già mi lanciavo sul petto di mia madre. Sollevai freneticamente il suo vestito, afferrai con tutte e due le mani la base di quel seno
la cui forma ricordava un mantou, spalancai la bocca e mi incollai a un capezzolo. Un senso di bruciore mi si diffuse in bocca, e cominciai a lacrimare. Sputai il capezzolo e alzai il volto con aria interrogativa e offesa. Mia madre mi diede un paio di buffetti sulla testa, e con un sorriso di scusa disse: – Jintong, ormai hai sette anni, sei un ometto grande e forte, bisogna proprio smetterla con il
latte.
L’eco delle sue parole non si era ancora spento che Jintong senti il suono squillante e dolce della risata dell’ ottava sorella, Shangguan Yünü. Davanti agli occhi di Jintong si fece buio. Aveva levato il proprio viso al cielo, ma era ripiombato sulla terra. Guardò con disperazione i due seni con i capezzoli imbrattati di peperoncino. Due piccioni dagli occhi rossi che se ne andavano innalzandosi nel cielo più alto. Per fargli smettere il latte, la mamma aveva provato a cospargersi il capezzolo di succo di zenzero, di succo d’aglio, di acqua sporca di pesce, era arrivata addirittura a metterei della puzzolentissima urina di gallina. E ora era passata all’ olio di peperoncino. Tutti quei tentativi erano stati sempre vanificati da lui, che si buttava a terra fingendosi in punto di morte.
Stavo sdraiato sul pavimento, in attesa che mia madre, come sempre, andasse a lavarsi il capezzolo. L’incubo che avevo fatto quella notte mi si dispiegò con estrema chiarezza davanti agli occhi: mia madre che si tagliava il seno, lo gettava a terra e diceva: «Succhia, succhia! » Poi un gatto nero lo afferrava con la bocca e fuggiva via.
Mia madre mi tirò su e mi costrinse a sedere al tavolo da pranzo. Sul suo volto c’era un’espressione severa.
– Qualsiasi cosa tu dica, con il latte hai finito, – disse in tono fermo. – Avresti davvero il coraggio di succhiarmi fino a farmi diventare un pezzo di legno secco? Eh, Jintong?
Padroncino Sima, Sha Zaohua e l’ottava sorella erano seduti intorno al tavolo a mangiare spaghetti, e mi fissavano con occhi vagamente sdegnosi. Shangguan Lü sorrideva con freddezza dal mucchio di cenere accanto ai fornelli, il suo corpo era rinsecchito, la pelle sembrava incartapecorita e si squamava. Padroncino Sima sollevò in alto uno spaghetto tremante con le bacchette e me lo sventolò davanti al viso. Quando quel filo di pasta si intrufolò come un verme nella sua bocca, mi venne da vomitare. Mia madre prese una ciotola di spaghetti fumanti e la mise sul tavolo, mi passò un paio di bacchette e disse: – Mangia, assaggia gli spaghetti preparati dalla sesta sorella.
La sesta sorella, che stava accanto ai fornelli per dar da mangiare a Shangguan Lü, piegò di lato la testa guardandomi con occhi ostili e mi apostrofò: – Cosi grande e ancora ciucci il capezzolo. Non prometti niente di buono!
Le scagliai addosso la ciotola degli spaghetti. La sesta sorella fece un salto, gli spaghetti erano rimasti appesi sul suo corpo come tanti vermi. Furiosamente gridò: – Mamma, lo hai davvero viziato troppo!
Mia madre mi mollò una pacca sulla nuca.
Mi lanciai contro mia sorella, le pizzicai con forza i seni che gemettero di dolore, come le ali di una giovane gallinella addentate da un topo. Lei si alzò di scatto in piedi, ma il dolore la costrinse a curvarsi. La tenevo con tutte le forze e non lasciavo la presa. Il suo viso affilato si fece giallo, piangeva e strillava: – Mamma, mammaaa, lo vedi?
Mia madre iniziò a darmele forte sulla testa, insultandomi: – Bestia! Sei una piccola bestia! Svenni.
Quando ripresi conoscenza, la testa mi doleva come se stesse per spaccarsi in due. Padroncino Sima continuava con indifferenza a eseguire i suoi giochetti aerei con gli spaghetti. Sha Zaohua sollevò un visetto inzaccherato di spaghetti dal bordo della ciotola e mi guardò timidamente, ma allo stesso tempo facendomi capire che provava per me un sentimento di profonda stima. La sesta sorella dai seni feriti stava seduta sulla soglia a piangere. Shangguan Lü, con un’ espressione rabbiosa dipinta sul viso, mi fissava con occhi malevoli. Piegata in avanti esaminava gli spaghetti sul pavimento. – Brutto bastardo! Pensi che questi spaghetti siano arrivati con facilità? (pp. 224/5)
Sarà solamente la sesta sorella, Niandi, che riuscirà a far sostituire il latte materno con quello di una capra. Così Jintong fino ai suoi tredici anni (ma nel romanzo si fa intendere che la cosa forse va anche oltre questa età) si nutrirà esclusivamente di latte della “sua” capretta.
Io ero affamato. Una tristezza sconfinata si diffuse nel mio cuore. Realizzai con estrema chiarezza che la vita fondata sul latte di mia madre come unico sostentamento non sarebbe durata ancora a lungo. E, prima della fine, era necessario trovare qualcosa che fungesse da alimento.
Subito ripensai agli spaghetti contorti e arrotolati come tanti ascaridi. Un irrefrenabile senso di nausea risali dal profondo della mia gola. Ebbi un paio di conati. Niandi sollevò la testa e mi scrutò perplessa.
– Che ti succede? – mi chiese con un tono che mi infastidì profondamente.
Agitai la mano, facendole capire che in quel momento non potevo risponderle. Fui assalito da altri conati. Lei lasciò andare la testa della capretta e mi disse: – Jintong, che diventerai da grande?
Lì per lì non capii il significato delle sue parole.
Disse: – Secondo me devi provare a bere il latte di capra.
Osservai Lu Shengli che lo succhiava avidamente, e qualcosa si agitò dentro di me.
– Vuoi distruggere la mamma? – mi chiese scuotendomi una spalla. – Lo sai, come si produce il latte? Col sangue. Tu stai succhiando il sangue di mamma! Ascolta tua sorella, prova a bere il
latte di capra.
lo la guardavo, poi un po‘ controvoglia annuii.
Agguantò la capra nera del più grande dei figli del muto e mi disse: – Vieni, vieni qua, svelto.
Carezzandole la schiena la fece calmare. – Vieni –. I suoi occhi mi incoraggiavano affettuosamente. Io esitavo. Feci un passo in avanti, poi ne feci un altro.
– Vieni. Infilati sotto la sua pancia. Osserva come è fatta.
Mi sdraiai sull‘erba. Coi talloni premuti sul terreno, strisciai in avanti sulla schiena.
– Capretta di Grande Muto, mutina bella, fai qualche passo indietro ... – Parlando Niandi spinse indietro la capretta nera.
Guardavo il cielo di Gaomi, era di un azzurro abbagliante. Uccellini dorati volavano nell’aria scintillante di argentei bagliori lanciando cinguettii acuti. Ma presto la mia visuale venne oscurata. La mammella rosa della capretta nera dondolò davanti al mio viso. Due capezzoli grandi come grossi vermi cercarono tremanti la mia bocca. Sbatterono sulle mie labbra e subito si misero a tremare ancora di più. Volevano aprire la mia bocca. Sfregando le mie labbra le intorpidirono, sembrava quasi che una debole corrente elettrica mi attraversasse, stimolandomi. Mi sentii immerso in una sensazione di felicità. Pensavo che i capezzoli delle capre fossero mosci, privi di elasticità, simili a cotone grezzo, e che una volta in bocca si scomponessero alla prima ciucciata. In quel momento, invece, mi resi conto che erano duri e cedevoli allo stesso tempo, che possedevano un’ottima flessibilità e non erano in nulla inferiori a quelli di mia madre. Mentre mi sfregavano, percepii qualcosa di caldo che mi inumidiva le labbra. Era un liquido vagamente puzzolente che non mi piaceva, ma mischiata a quell’odore c‘era anche una fragranza. Era il profumo dell‘erba che riempiva il prato,misto all‘odore dei piccoli fiori gialli. La mia volontà cominciò a cedere, la mascella fino ad allora saldata in una morsacominciò a rilassarsi. Appena dischiusi le labbra, il capezzolo della capra si infilò violentemente nella mia bocca e vi si agitò attivamente. Un forte spruzzo di latte schizzò in parte sul mio palato e in parte in gola. Mi sentii soffocare, sentivo che presto non sarei più riuscito a respirare. Lo sputai fuori, ma subito l‘altro capezzolo lo sostituì. Era ancor più vivace di quello di prima ...
Scodinzolando rilassata, la capra si allontanò da me. I miei occhi erano pieni di lacrime. Avevo la bocca piena di odore caprino, volevo vomitare. Avevo la bocca piena della fragranza dell‘erba e
dei fiori selvatici, non volevo vomitare. La sesta sorella mi tirò su e, prendendomi in braccio, girò su se stessa. Vidi lepiccole macchie dovute all’eccitazione sul suo viso, i suoi occhi sembravano
due pietre nere appena pescate dal fondo del mare, straordinariamente lucenti e brillanti. Tutta eccitata disse: – Sciocco fratellino, sei salvo …
– Mamma, mamma, – gridò in preda all‘entusiasmo, – Jintong ha imparato a bere latte di capra! Jintong beve latte di capra! (p. 253/55)
Se la madre non allatta più direttamente Jintong si preoccuperà però sempre che a suo figlio non venga mai a mancare il latte.
Durante la lezione di musica sfoggiai capacità canore e una memoria fuori del comune. Nell’istante esatto in cui finimmo di cantare la strofa « … e le donne erano nello strato più basso», da fuori mia madre mise sullo stipite di salice della finestra il biberon di latte di capra avvolto in un asciugamano bianco, e iniziò a chiamarmi più volte bisbigliando: – Jintong, prendi il latte ! Jintong, prendi il latte!
I richiami di mia madre e l’odore del latte minacciarono gravemente la mia concentrazione, ma nonostante ciò, quando eravamo ormai prossimi alla fine della lezione, l’unico in grado di cantare tutta la Canzone della liberazione delle donne in maniera corretta ero io. Ji Qiongzhi si profuse in generosi elogi nei confronti di quell’unico studente su quaranta. Chiese quale fosse il mio nome, poi mi fece alzare di nuovo in piedi e cantare ancora una volta la Canzone della liberazione delle donne.
La maestra Ji aveva appena annunciato la fine della lezione, che mia madre infilò il biberon oltre lo stipite. Esitai. Mia madre disse: – Figlio, presto, prendi il tuo latte. Sei un ragazzo così promettente. Mamma è molto felice per te. Nell’aula scoppiarono tutti a ridere. – Prendi, – insistette mia madre. – Di che ti vergogni? Spandendo un fresco profumo di pasta dentifricia Ji Qiongzhi si avvicinò a me. Si appoggiò con disinvoltura alla bacchetta e, rivolta verso l’esterno, disse: – Ah, sorella, è lei. Non deve venire a disturbare le lezioni. Le parole della maestra lasciarono mia madre di stucco. Spinse lo sguardo all’interno e con grande rispetto rispose: – Signora questo è il mio unico figlio maschio. Sin da piccolo ha manifestato un problema, non riesce a mangiare cibo solido. Quando era piccino dipendeva solo dal mio latte, ora dal latte di capra. Stamane la capretta ha dato poco e lui non ha potuto mangiare a sufficienza. Ho paura che non ce la faccia, fino a stasera …
Ji Qiongzhi sorrise. Mi guardò e disse: – Prendilo. Non lasciare tua mamma lì a tenerlo. Divenni tutto rosso in viso. Presi il biberon. Poi Ji Qiongzhi si rivolse di nuovo a mia madre: – Come può continuare cosi? Quando sarà grande, quando andrà al liceo e poi all’università, pensa davvero che per mangiare si dovrà portare dietro la capretta? – Davanti ai suoi occhi apparve la scena di uno studente, alto di statura, che faceva il suo ingresso in aula tirandosi dietro una capretta, e questo la fece scoppiare in una squillante risata priva di ogni malizia.
– Quanti anni ha?
– Tredici, – rispose mia madre. – È del segno del coniglio. Anch’io sono molto preoccupata, ma qualsiasi altra cosa mangi la vomita subito. Gli vengono terribili dolori di stomaco, comincia a
sudare giallo, una cosa spaventosa …
– Basta, mamma! – dissi io a disagio. – Non dire altro. Mamma! Non lo bevo! Mamma! – Misi il biberon fuori della finestra.
Ji Qiongzhi mi strizzò leggermente un orecchio: – Allievo Shangguan, non fare così. Questa tua abitudine andrà cambiata piano piano. Bevi. Mi voltai verso la fila di sguardi che brillavano nella semioscurità. Mi sentivo morire dalla vergogna.
– Ricordate tutti, – disse Ji Qiongzhi: – non bisogna mai farsi beffe dei punti deboli degli altri -. Terminata la frase se ne andò. Con il viso verso il muro, succhiai il più velocemente possibile
il latte dal biberon. Quando ebbi finito passai la bottiglia a mia madre e le dissi: – Non venire mai più. (p. 444/5)
All’inizio dell’adolescenza, grazie a un intervento di condizionamento classico alla Pavlov, Jintong riesce a fare a meno del latte-capezzolo-seno e comincia a mangiare di tutto. Non è però un dato definitivo. In maniera sotterranea l’attrazione verso i seni e i capezzoli rimane e affiora in circostanze diverse e paradigmatiche in vari episodi della vita di Jintong. Il quale sessualmente non avrà una evoluzione verso un erotismo che contempli la genitalità e rimarrà sempre ancorato a un desiderio primario di ricongiungersi al seno per succhiarlo. Le donne saranno attratte da lui che presenta così ben marcati caratteri europei, ma per lui la sola attrazione rimarranno sempre e solo i loro seni. Subirà per questo quindici anni in un carcere di lavori forzati per aver rifiutato di avere rapporti sessuali con una caposquadra di una comune, nella quale, come elemento di destra, è stato mandato per raccogliere lo sterco di un grande pollaio. La caposquadra, una donna menomata di un braccio, aggressiva e irascibile, pretende dal più che ventenne Jintong una prestazione sessuale che lui non riesce a soddisfare. Per questo la caposquadra (come se l’impotenza di Jintong fosse stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso) si suicida e lui, sconvolto, ma attratto dai seni della donna, si congiungerà al cadavere in un rapporto carnale, che rimarrà l’unico della sua vita. Ritornato dal carcere e dopo aver tentato di reinserirsi in attività lavorative che saranno però sempre fallimentari, ormai arrivato a cinquant’anni, andrà per tre anni in un manicomio per un episodio scatenato dalla vista dei manichini femminili di un negozio.
Una foresta di negozi s’alzava ai due lati della strada. Mentre stava maledicendo in cuor suo le misere condizioni in cui versava, vide improvvisamente una vetrina scintillante di luci. All’interno
c’erano sei manichini, tre maschili e tre femminili. I vestiti che avevano su parevano ritagliati da nuvole colorate. I manichini delle donne sembravano scolpiti nell’ avorio. Avevano teste di folti
capelli biondi oppure neri, fronti lucenti di saggezza, nasi dritti, ciglia ricurve, occhi bellissimi che trattenevano le proprie emozioni, labbra rosse, fragranti, ma soprattutto, com’era ovvio, ad ammaliare intensamente Jintong furono i loro seni, così alti. Guardandoli e riguardandoli cominciò a sembrargli che quei modelli si animassero. Il profumo mielato dei loro seni cominciò a diffondersi verso di lui attraverso il vetro e a riscaldargli il cuore. Solo quando sbatté la fronte contro la gelida superficie del vetro riacquistò lucidità per qualche istante. Ebbe il terrore che la propria crisi di follia stesse per divenire irrefrenabile. Approfittando di quel breve momento di lucidità si allontanò velocemente. Si costrinse a correre, ma corse in circolo e senza rendersene conto si ritrovò al punto di partenza. Sollevò le braccia al cielo, verso la tremula luce delle stelle. Pregò: – Padre celeste, fammele toccare, fammele toccare, non chiedo altro in questa vita.
Si lanciò con foga verso i manichini. In un istante senti i vetri andare in mille pezzi senza alcun suono. La sua mano non era ancora riuscita a toccarne uno che già i pupazzi femminili avevano
iniziato a cadere, leggeri come piume, da una parte all’ altra. Premette la mano contro uno di quei rigidi seni. Una sensazione orribile gli attraversò il cuore come un lampo: mio Dio, non hanno
capezzoli! (p. 711)
Quasi alla fine del romanzo si scoprirà che i nove figli di Shangguan Lu hanno tutti padri diversi, concepiti per non sottostare alle continue angherie e botte della suocera e del marito ma anche come tributo (perché apparisse degno di procreare e di avere una grande famiglia) alla famiglia della quale, sia pure odiandola, era ormai entrata a far parte.
– Zio, non te ne faccio una colpa. Sono loro che mi hanno costretto a questo. Il tono della sua voce si era fatto improvvisamente tagliente. Rivolta verso i cocomeri nel campo, quasi fossero una sua platea, aveva esclamato: – Ascoltatemi! E ridete! Zio, la vita è una cosa ben strana. Se faccio la moglie virtuosa ed esemplare vengo picchiata, insultata e rimandata a casa; se invece prendo di nascosto il seme di un altro uomo allora ecco che divento una vera signora. Zio, questa mia barca prima o poi si ribalterà. Se non avverrà nel canaletto della famiglia Zhang, succederà nel fiumiciattolo della famiglia Li. Zio, – rise freddamente, – non si suol forse dire che «non si può lasciar che l’acqua migliore piova nel campo di un estraneo» .
Il marito della zia si era rialzato in piedi agitato e smarrito, lei invece, come in preda a un capriccio, si era tolta di scatto i calzoni … (p. 824)
Gli ultimi nati, Jintong e sua sorella Yünü, sono figli del prete cattolico del villaggio. Un bizzarro prete che tanti anni prima è venuto dalla Svezia e che ha trovato rifugio per lunghi anni a Gaomi, il villaggio cinese dove si svolge il romanzo. Dal prete Jintong erediterà capelli biondi e occhi azzurri, ovviamente una marcata anomalia, che lo bollerà per sempre come Il bastardo.
L’allattamento protratto, il rivendicare il suo diritto al privilegio di succhiare il latte materno (lui solo, contro la sorella gemella) sembrano costituire di fatto la totale mancanza di autonomia di Jintong. Si potrebbe ricorrere a una vetero interpretazione psicanalitica, un fissarsi per tutta la vita a quella che fu chiamata “fase orale”. Di fatto l’attaccamento ossessivo al latte e quindi al seno è la metafora della non realizzazione di una crescita del personaggio come autonomo e responsabile della propria vita. Lui, il solo figlio e fratello maschio rimane nella dipendenza e nell’incapacità di affrontare autonomamente la sua vita. Le sue sorelle sanno abbandonare la madre e la famiglia, sanno scegliere la loro vita. Lui no, per tutta la vita non saprà scegliere. Si farà scegliere con alterne vicende della fortuna. Ora disgraziato, ora ricco, ora in prigione, ora in manicomio. Incapace comunque sempre di scegliersi una “sua” via.
In queste ultime decine d’anni la gente della famiglia Shangguan è stata come i porri: un mazzo si è seccato, un mazzo è cresciuto. Alcuni sono nati, altri sono morti. Morire è facile, vivere è difficile. E più è difficile e più uno vuole vivere. Più non ha paura della morte e più si batterà per la vita. Io voglio arrivare a vedere il giorno in cui i miei nipoti verranno in superficie, e voi tutti dovrete fare del vostro meglio per farmi raggiungere questo scopo!
Passò su di noi quei suoi occhi gonfi di lacrime che allo stesso tempo lanciavano fiamme, e alla fine li fermò sul mio viso, come se su di me poggiasse le più grandi speranze. Provai un fortissimo senso di apprensione e di disagio. Oltre a saper recitare velocemente a memoria il testo della lezione e cantare in maniera piuttosto accurata la canzone sulla liberazione delle donne, in sostanza non avevo altri pregi. Piangevo facilmente, ero un pavido, un debole, ero come un agnellino castrato. (p. 492)
Mo Yan avrebbe potuto scegliere un’altra metafora ossessiva che non quella del seno per illustrare un personaggio incapace di affrontare autonomamente la vita. La fissazione al desiderio del seno materno è il tramite con il quale Jintong realizza la sua incapacità ad affrontare la vita. Non è perché è rimasto “fissato” al desiderio nostalgico dei capezzoli e dei seni materni che Jintong è un uomo impotente e non autonomo, lo è perché non ha mai sviluppato un comportamento di indipendenza che è diventato tale. Nella filigrana del racconto, di fronte a una madre forte, indipendente, capace di affrontare per novantacinque anni ogni avversità della vita, dalle carestie alla morte delle figlie, si legge l’incapacità stessa della madre a sostenere la vita del figlio attraverso le frustrazioni. Cercando sempre, in tutti i modi di evitare frustrazioni al figlio, paradossalmente la fortezza materna si traduce nella debolezza assoluta di Jintong perché la madre avalla ogni suo comportamento infantilizzante e dipendente. C’è sempre lei al suo posto, c’è sempre lei che gli risolve ogni difficoltà. Che a parole dice di non volerlo più allattare e poi nei fatti questo non succede mai.
Un giorno mia madre provò a infilarmi in bocca un cucchiaio di zuppa di pesce. Lo sputai senza la minima esitazione, mettendomi a piangere. Mia madre allora prese un cucchiaio di zuppa di pesce
e imboccò il bastardo dei Sima, che con grande sorpresa lo inghiotti ingenuamente. Gliene diede un altro, e lui inghiotti anche quello. Soddisfatta osservò: – Bene, almeno questo infelice è in grado di mangiare da solo. E tu? – disse guardandomi, – anche tu devi smettere il latte -. Afferrai con terrore il suo seno. (p.155)
Io stavo in ginocchio davanti al petto di mia madre a succhiare il latte. Mia madre, un po’ impacciata, cercava di tenere il viso di lato per riuscire a bere il suo zhou, – Mamma, tu lo vizi davvero troppo, – disse Niandi. – Che pensi di fare? Di lasciargli bere latte fino al giorno in cui prenderà moglie?
– Se vorrà bere latte fino al giorno in cui prenderà moglie, ce ne sarà, – replicò mia madre, – il padre di Bao Cai, che vive nel vicolo occidentale, ha bevuto latte fino a che non si è sposato. Cambiai capezzolo.
– Jintong, sono pronta a rischiare tutto insieme a te. Aspetterò il giorno in cui avrai deciso di averne bevuto abbastanza -. Mia madre era passata attraverso ogni sorta di difficoltà, ma il suo latte era sempre ricco. (p. 250)
La madre di Jintong ha affrontato la crescita del figlio maschio da sola. Ha voluto, in ogni modo, affrontarla da sola. E’ stata sempre solo sfiorata dalle critiche che le facevano le figlie sul modello educativo che attuava. Non ha mai accettato nessun confronto vero, non ha mai condiviso con nessuno i principi della sua educazione. Possiamo pensare che forse avrebbe accettato di condividere la sua educazione con il padre di Jintong (quella figura così paradossale di prete cattolico e svedese). Ma il padre-prete si suicida il giorno stesso del battesimo dei due gemelli, ultimi figli di Shangguan Lü.
Se la madre avesse cercato la condivisione e il confronto con altri (parenti, amici, amiche) forse avrebbe salvato Jintong dalla sua totale dipendenza dal seno materno. Perché il genitore unico rischia sempre di diventare oppressivo nella sua unicità, totalmente ingombrante nel non lasciare che il suo unico modello diventi imperante e oppressivo. Ognuno di noi, di qualsiasi problema complesso che affronta, ne vede una parziale possibilità di soluzione. Un’opera di crescita di un figlio è sempre un problema complesso. Solamente i confronti con altre diverse visioni e parzialità possono arricchire le possibilità di soluzioni educative.
Questa madre ha confuso l’amore con la totale mancanza di autonomia del figlio. E’ emblematico l’episodio del biberon portato a scuola, quando il figlio ha ormai tredici anni. Sottopone il figlio alla vergogna nei confronti di tutti gli altri alunni. Questo comportamento materno è anche un ribadire che è lei sola che decide come il figlio debba agire. E’ un atto dimostrativo di potere arrogante. Ci sembra che questa madre sappia esattamente che cosa produrrà il suo arrivo a scuola, il suo richiamo a bere il latte che porta a Jintong. E’ un riaffermare il suo desiderio di legare il figlio a sé in un rapporto di dipendenza eterna. Shangguan Lü ha creato un legame patologico tra madre e figlio: loro due non possono fare a meno di ripetere gli stessi, reciproci comportamenti nei riguardi della dipendenza da latte. Tutti e due non sanno come fare perché questa dipendenza si spezzi.
Possiamo pensare che questo desiderio di legare così strettamente il figlio a sé derivi da tutte le terribili angherie che ha subito per dare un figlio maschio alla famiglia, pensare a come si è vista costretta ad avere rapporti con vari uomini per fare figli, pensare che la sua vita era legata a una mentalità atavica. Non potremmo però giustificare una situazione simile che si verificasse nella realtà.
Questo libro ci può dare un indirizzo nella misura in cui la creazione di una dipendenza totale di un figlio al proprio genitore diventi soffocante per lui in primo luogo, ma di fatto per entrambi. Le madri dominanti (anche in famiglie dove la presenza dei genitori è quella tradizionale) possono ‘rovinare’ i figli. In una famiglia senza partner e senza nessuno scambio con un altro adulto, la madre dominante corre il rischio di espandersi senza limiti, di debordare all’eccesso. E’ sensato che chi si trova in questa condizione vigili, e vigili nell’ottica non solo di guardarsi dall’esterno, di cercare obiettività e di confrontarsi con altri modelli, ma anche nell’ottica di verificare costantemente il portato reale della sua attenzione verso il figlio, della sua iperpresenza. Chi legge, se riesce a vedere in se stesso una tendenza alla prevaricazione che genera dipendenza e mancanza di autonomia, potrebbe farsi un esame e cercare di evitare di portare analoghi biberon a scuola e nelle varie situazioni della vita.
Mo Yan (Premio Nobel per la Letteratura 2012)
Grande seno, fianchi larghi
ET Scrittori, Einaudi, Torino, 2006
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La foto di apertura è tratta dalla copertina del libro