Un’altra vita. Questo le aveva detto Maestra Luciana. Ti serve un’altra vita, dove nessuno sappia chi sei, di chi o di cosa sei figlia. Maria non le aveva raccontato niente di quello che era accaduto, né di cosa lei e Bonaria si fossero dette, ma era bastato uno sguardo attento dentro gli occhi verdi della torinese perché Maria capisse di essere stata l’unica persona in paese a non sapere chi era davvero Bonaria Urrai.
Cercava invano di dominare il vuoto del tradimento subito, che le sembrava sì affine alla morte, ma senza la consolazione di poter vegliare una spoglia cara, e nessuna sepoltura per dare confini di terra al pianto che la soffocava. Aveva vissuto per anni con Bonaria convinta di essere andata a pareggio con le sue due nascite,una sbagliata e però anche una giusta, ma ora i conti le apparivano pieni di errori e cancellature, lasciandola ancora una volta fuori, come un resto avanzato.
Un’altra vita, le ripeteva Luciana Tellani con decisione, come se fosse niente rinascere. Eppure si rivelarono parole adatte, le maestre spesso ne hanno qualcuna da parte per le evenienze come quelle: la possibilità di determinare almeno una delle sue troppe nascite, più di ogni altra spinta poteva convincere Maria a partire con tanta rapidità.
Stare sul mare tra Olbia e Genova […] Ricominciare altrove, tagliarsi il cordone in un momento preciso dell’esistenza scelto da lei, senza levatrici né debiti apparenti, fece sentire Maria come quel giorno di tanti anni prima nel cortile di Anna Teresa Listru, quando sotto la pianta del limone già decideva da sola che cos’era meglio impastare dentro le torte di fango. Durante quel viaggio Maria si ingegnò per non dormire mai, nemmeno un’ora. Il tempo le servì tutto per farsi accabadora dei suoi ricordi, e trattare gli avvenimenti che l’avevano portata a quella decisione come persone da far salire o meno sul traghetto per il continente. Uno per uno li segnò, mentre li ricordava per dimenticarli, e quando arrivò al porto di Genova scese dalla nave sentendosi più leggera, convinta di aver lasciato sull’altra terra tutta la zavorra delle sue ferite.
(pp 120-121)
Bonaria Urrai di mestiere è sarta, ma è un mestiere di facciata. Nella comunità di cui fa parte, di fatto, svolge il ruolo di accabadora. In una Sardegna atavica dove vigono antiche regole del tessuto sociale, nelle quali e per le quali l’humus culturale fissa i ruoli in maniera rigida e ripetitiva, facendoli crescere immodificabili. Uno dei ruoli è quello dell’accabadora = colei che compie la fine (dallo spagnolo acabar = finire), che svolge il suo compito sociale nell’aiutare a morire coloro che lo vogliono ma non riescono a farlo da soli. Bonaria è sola, ha una casa grande e una certa agiatezza. Ha avuto un fidanzato che non è tornato mai dalla guerra. Si considera e viene considerata come una specie di vedova. Ha incontrato Maria Listru un giorno in una bottega quando, credendosi non vista, la bambina stava rubando delle ciliegie. In quel momento Bonaria ha deciso di adottare la bambina. Un’adozione, anche questa, inserita nel costume tradizionale, per il quale non c’è bisogno di carte ufficiali. Basta l’accordo tra i genitori e l’adottante. E’ così che Maria diventa filla ’e anima di Bonaria il giorno che questa la chiede alla madre e la porta con sé nella sua casa. Un’adozione che, attraverso anche questa definizione, rende esplicitamente evidente la diversità tra un figlio nato dalla carne e un figlio nato da una scelta dell’anima.
Il romanzo, che parte dalla scelta di Bonaria di fare di Maria la sua filla ’e anima, gioca continuamente sul tema bipolare di nascita – morte, reali e simboliche. Nella storia nascita e morte, reali e simboliche, si intrecciano continuamente, senza mai risolversi davvero in una dualità netta. Nascite simboliche, ma profondamente incisive e vissute come tali dai protagonisti, quella di Bonaria come madre al momento dell’adozione e quella di Maria al momento che decide di nascere allontanandosi anche fisicamente (dalla Sardegna a Torino) dalle due madri (la naturale e l’adottante) che finora ha avuto.
La storia rende evidente che è la presa di coscienza di una responsabilità individualizzante che ci fa nascere. Non nasciamo come individui alla nostra nascita fisica, della quale non possiamo essere coscientemente consapevoli, ma solo nel momento che decidiamo che vogliamo stare al mondo in un determinato modo. E forse non tutti nascono alla consapevolezza di loro stessi.
Speculare, anche se non necessariamente coincidente temporalmente con quello della nascita del figlio, c’è una nascita come genitori. Anche in questo caso è sola nel momento in cui il genitore realizza di esserlo e se ne prende la responsabilità che lo diventa. Nel momento che Bonaria osserva Maria bambina che ruba le ciliegie e decide che se ne prenderà carico e cura, nasce come madre.
L’anziana sarta si era comportata da subito come se la creatura le fosse nata dal grembo, lasciando circolare Maria per casa quando veniva qualcuno in visita, oppure portandola con sé dovunque si recasse (p. 17).
L’altra, la madre naturale, non è mai nata come genitore per Maria. La filla ’e anima di Bonaria è infatti la quarta figlia di una vedova che considera la sua nascita un “errore” dopo le prime tra figlie, tutte molto più grandi di lei.
C’è anche un altro tema, in questo libro, che ci appare molto interessante: nella relazione tra Maria e Bonaria non traspare mai il bisogno che sia presente anche l’ “altro” genitore. Maria e Bonaria non hanno bisogno di un uomo perché la loro famiglia sia “completa”. Lo stereotipo familiare vorrebbe che il genitore singolo sia un minus nel confronto relazionale con il figlio, qui invece, come spesso nella realtà, non si sente il bisogno di un terzo perché la famiglia sia veramente tale. E questo tema è sviluppato come dato di fatto. Questa a nostra parere è la sua forza: non una tesi da dimostrare, ma lo sviluppo dei fatti, nel corso del romanzo, che rendono palese come Bonaria e Maria siano famiglia.
Questo sentirsi e vivere come unità familiare si declina, anche questo, contro un altro stereotipo: quello che dà per scontato che i bambini debbano “risentire” (in negativo ovviamente) dell’allontanamento dalla famiglia di origine (in questo caso per un’adozione). Stereotipo e pregiudizio che spesso non permette di analizzare in quali condizioni il bambino viveva nella famiglia di origine.
– E’ strano sa, questa cosa del figlio d’anima…
– Perché è strano? – il tono di Bonaria era inespressivo
– Maria non sembra averne affatto risentito. Vede spesso la sua famiglia di origine?
– Si, ogni volta che lo chiede. Perché doveva risentirne?
Luciana Tellani rispose di getto, come se quella frase se la fosse rimuginata da molto prima, nell’attesa che la vecchia si presentasse all’appuntamento.
– Non lo so, è che mi sorprende che per esempio, quando le chiedo si fare un disegno dei suoi genitori, Maria disegna lei, e non la vera madre … (pp. 21-22)
Per smAllFamiles, oltre le riflessioni sul tema della nascita come consapevolezza sia da parte del genitore che da quella del figlio, ci sembra che la riflessione sia molto interessante sui temi dell’adozione e dell’affidamento.
Per il versante adozione il tema si allarga a tutto il dibattito attuale. La nostra legislazione segue lo stereotipo e il pregiudizio: si danno in adozione bambini a famiglie formate da coppie eterosessuali. Già un’adozione a famiglie con coppia omosessuale sembra impossibile. Come poi solo pensare a un’adozione con un solo genitore? Quello che nell’Accabadora avviene per tradizione e in forma sostanziale (cioè non riconosciuta legalmente) è impensabile per la nostra legislazione. Eppure il racconto dimostra di fatto la “normalità” di una famiglia adottiva formata da un solo genitore e una figlia. Infatti: gli aspiranti genitori adottivi devono in primo luogo rispondere ai requisiti previsti dall’art.6 della legge n.184/1983 e seguente legge n° 149 del 28 Marzo 2001.
Pertanto:
1) La coppia deve essere regolarmente coniugata;
2) deve essere coniugata da almeno tre anni (la stabilità del rapporto può ritenersi realizzata anche quando i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo, per un periodo di tre anni prima del matrimonio);
3) non deve avere in corso o di fatto avuto alcuna separazione;
4) l’età dei genitori deve superare di almeno 18 anni ma non più di 45 anni l’età del il figlio da adottare;
5) la coppia deve essere capace di educare, istruire e mantenere il figlio adottivo (requisiti che saranno oggetto dell’indagine dei Servizi territoriali, dopo il primo controllo da parte del Tribunale).
Per il fatto poi che nel romanzo si racconti come Maria Listru non abbia interrotto i rapporti con la famiglia di origine (seguitando a partecipare agli avvenimenti, come il matrimonio di una sorella o l’aiuto in casa per altre particolari occasioni), questa adozione di filla ’e anima si configura più vicina a quella che nella nostra legislazione è previsto come istituto dell’ affidamento familiare.
L’affidamento familiare sembra, al contrario dell’adozione, allargare le sue maglie. A differenza dell’adozione, che ha uniter molto complesso ed è “per sempre”, l’affidamento è caratterizzato dalla temporaneità e richiede una procedura più snella. Sono in aumento le richieste verso questo modo di “fare famiglia” e sempre più spesso diventano “affidatari” persone singole (uomini e donne) o coppie conviventi, con o senza figli. Non ci sono vincoli di età, istruzione o reddito. Chi si rende disponibile all’affidamento partecipa a un percorso di informazione e approfondimento, che avviene sia in gruppo, sia individualmente, attraverso colloqui con assistenti sociali e psicologi, ed è accompagnato da una visita domiciliare. Questo percorso, improntato ad un “dialogo riflessivo”, permette di declinare in modo concreto e fattibile la disponibilità, i limiti e le esigenze di chi si propone per un affidamento, in relazioni alle situazioni dei bambini e delle loro famiglie. L’affidamento può avvenire con l’accordo della famiglia di origine; oppure decretato con provvedimento del Tribunale per i Minorenni anche senza l’assenso della famigliare.
(si ringrazia per la consulenza legale l’avvocato Maria Garofalo, consulente Smallfamilies®)
Accabadora, di Michela Murgia, Einaudi, Torino, 2011
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